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il CREDO / 5

 

La redenzione

 

 

Dopo aver affermato chi è Gesù, nel suo rapporto unico al Pa­dre, nella sua origine piena da Dio e nella sua destinazione per noi, il Simbolo ci ricorda il suo destino: ciò che egli ha fatto e soprattut­to patito per noi, dichiarandone il significato e il prezzo. Ci viene dunque proposto di riconoscere e di confessare che è il nostro Sal­vatore.

 

«...Patì sotto Ponzio Pilato, fu crocifisso, morì e fu sepolto...»

E dato che emerge primariamente da questa enumerazione è che la fede non veicola soltanto delle belle e grandi idee. Essa è legata a dei fatti. Noi conosciamo e riconosciamo il nostro Dio at­traverso il passaggio del suo Figlio nella nostra storia. È insito nel­la fede cristiana un elemento fattuale che la contraddistingue e la preserva da ogni forma di ideologia. Essa si trova inserita nella storia: in una storia concreta, datata. E tale è la funzione del richiamo, abbastanza sorprendente, a Ponzio Pilato. La fede cristiana comporta quantomeno un elemento che, in sé, non si rifà alla fede ma è riconoscibile da qualsiasi uomo: l'esistenza di questo romano che ha lasciato il suo nome negli annali della storia. Tanto che un non credente ha potuto dire che se c'era nel Credo qualcosa che poteva far suo volentieri era appunto la dichiarazione «patì sotto Ponzio Pilato, fu crocifisso, morì e fu sepolto».

Tuttavia il credente non vede in queste parole un semplice episo­dio della storia umana, intessuta in gran parte di violenze. Infatti, per lui, Colui che in questo caso ha attraversato la sofferenza e la morte è lo stesso Figlio unico del Padre, interamente posseduto dal­l'amore per gli uomini nella loro condizione dolorosa e mortale, stabilito sotto la «legge del peccato» (Rm 7,23). Ne ha preso su di sé gli effetti disastrosi, perché non avessero più l'ultima parola.

In queste brevi parole del Simbolo ritroviamo il vangelo, quale memoria viva dell'uomo Gesù e della sua missione sulla terra. Mis­sione che si condensa nel racconto della sua passione e della sua morte come apportatrice della salvezza di Dio.

 

«...Discese agli inferi...»

L'affermazione può apparirci particolarmente enigmatica. Ci viene offerta in un linguaggio che esige una spiegazione. 'Gli infe­ri' designano il complesso del mondo misterioso e quant'altro mai oscuro della morte. In questo mondo Gesù, il Figlio unico di Dio, ha dovuto e voluto penetrare. Egli non lo ha solo toccato sfioran­dolo. Vi è entrato dentro. E ne ha conosciuto la spaventosa solitu­dine, la desolazione: «Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbando­nato?», grida in croce (Mt 27,46). Egli ha conosciuto la notte gla­ciale del sepolcro, i legami delle bende sul corpo privo di forze... Ma appunto raggiunge nella morte, per portar loro il germe della risurrezione, tutti coloro che parevano votati al suo potere definitivo.

I cristiani sono invitati a meditare questa discesa di Gesù agli in­feri nel silenzio del Sabato santo.

È accordato in tal modo uno spazio al silenzio di Dio, e a quanto può essere avvertito come sua assenza: un posto accordato e riser­vato a ciò che oggi qualcuno ha voluto chiamare, non senza ambi­guità, la morte di Dio.

La fede ci assicura, paradossalmente, che Dio, nel suo unico Fi­glio, si è reso presente e non cessa di rendersi presente, amorosa­mente presente, in ciò che noi sperimentiamo come suo allontana­mento, suo abbandono e sua assenza... La discesa agli inferi può apparire un'affermazione particolarmente preziosa del Simbolo, in un secolo come il nostro.

 

«...Il terzo giorno risuscitò dai morti...»

La menzione del terzo giorno tiene la fede ancorata alla storia. Si riferisce a un seguito di avvenimenti. La morte di Gesù ha avuto una continuazione anche nel nostro mondo.

L'affermazione della risurrezione di Gesù dai morti ci proietta nondimeno al di là della storia, nel mondo proprio della fede, che è il mondo di Dio.

Già l'affermazione della discesa agli inferi aveva un volto stori­co: quello riguardante il passaggio di Gesù attraverso la morte, at­traverso la tomba. Ma aveva anche una faccia volta al lato di Dio, ossia a quelle realtà che soltanto la fede può raggiungere. Negli in­feri, nella dimora dei morti, Gesù è penetrato in qualità di Figlio di Dio, come colui che ha incarnato l'invincibile amore di questo Dio per gli uomini.

Similmente, l'affermazione della risurrezione ha un volto stori­co: quello che si riferisce all'incontro che i discepoli hanno avuto in un certo numero di circostanze, proprio quando lo credevano or­mai scomparso per sempre. Ma ha anche una faccia volta alle real­tà che soltanto la fede può raggiungere, perché si riferiscono al mon­do di Dio.

La risurrezione viene confessata nella fede, di cui è pure il fon­damento. Fin dalle origini viene annunciata dall'alto. Presso la tomba vuota è annunciata alle donne dall'angelo, quale messaggero di Dio. E ai discepoli viene annunciata dallo stesso Gesù, che sempre vie­ne da fuori, né più si lascia racchiudere nei limiti del mondo, né

in quelli delle idee che i discepoli, come noi, possono farsi di ciò che è possibile. Gesù sfugge nel momento stesso in cui lo si vuole afferrare, perché non appartiene più a questo mondo.

La risurrezione di Gesù viene proclamata da coloro che, dopo averlo accompagnato sulla strade della Galilea fino alla sua passio­ne, lo hanno ritrovato vivo dopo la morte, secondo una modalità di presenza radicalmente nuova.

Da allora, la fede dei cristiani nella risurrezione di Gesù costitui­sce la risposta che lo Spirito santo permette loro di dare alla solidi­tà della testimonianza di coloro che soli erano in grado di identifi­care nel Risorto il crocifisso del Golgota. Questa fede illumina e trasforma la loro vita, come ha illuminato e trasformato la vita dei primi testimoni. «Beati coloro che non hanno veduto e hanno cre­duto» (Gv 20,29). I cristiani credono che Dio è capace di trionfare su tutte le oscurità e su tutte le prove della vita; e anche sull'«ulti­mo nemico» (1 Cor 15,26), la morte.

 

 

 

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