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il CREDO / 6

 

La glorificazione

 

 

«...Salì al cielo...»

Il «terzo giorno» della risurrezione si può dire che fa data nella nostra storia. E nondimeno la risurrezione resta, in questa storia, l'apertura di un'altra storia. Apertura nel nostro mondo di un altro mondo, il mondo di Dio; apertura del nostro mondo «sul cielo», ossia sull'universo di Dio. Essa costituisce appunto la Pasqua, os­sia il passaggio compiuto, nel corpo di Cristo, dal nostro mondo nel mondo di Dio, e dal mondo di Dio nel nostro mondo.

Non si parla in modo corretto della risurrezione di Cristo se si tralascia di parlare di una di queste due polarità, in cui essa si com­pie. La si tradisce se soltanto se ne fa un fatto diverso, mentre essa è piuttosto, per la potenza di Dio, il superamento dei limiti di que­sto mondo, la comunicazione globale tra il cielo e la terra.

La salita al cielo, che correntemente chiamiamo l'Ascensione, tiene viva la fede nel ricordo dell'aldilà di Dio, là da dove procede e si compie la risurrezione di Gesù.

Anche l'Ascensione è datata: avviene quaranta giorni dopo la Pa­squa. Si tratta di un numero simbolico, presente negli Atti degli apo­stoli; mentre Giovanni, come Luca nel suo vangelo, sembra con­densare in un solo giorno la risurrezione di Gesù e la sua ascesa al cielo, cioè la sua glorificazione. In realtà, nell'eternità di Dio, nella quale Gesù si trova ormai stabilito in virtù della sua risurre­zione, «un giorno è come mille anni e mille anni come un giorno» (2 Pt 3,8). D'altra parte, la presenza e l'azione continua di Gesù si sono manifestate ai discepoli, in modo tutto particolare, durante un tempo determinato, bastante a far loro comprendere che non do­vevano stabilizzarsi nell'esperienza che stavano facendo: tale espe­rienza doveva essere soltanto il punto di partenza per una missione da compiere lungo le strade del mondo: «Uomini di Galilea, per­ché state a guardare il cielo?», chiedono loro gli angeli. E annun­ciano il ritorno di Gesù. Nel frattempo, i discepoli devono essere suoi testimoni «a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria, e fino agli estremi confini della terra» (At 1,8-11).

Gesù aveva peraltro dichiarato che era bene che se ne andasse (Gv 16,7), affinché i discepoli non restassero troppo attaccati alla sua figura umana e vivessero ancor più di lui lasciandosi compene­trare interiormente dallo Spirito lasciato loro in eredità. Lo Spirito li avrebbe fatti vivere della sua vita: quella vita di amore che lo unisce al Padre e che lo ha portato a dare la vita per gli uomini suoi fratelli: «Se io non me ne vado, il Paraclito, il consolatore, non verrà a voi. [...] Quando verrà lo Spirito di verità, vi farà accedere alla verità tutt'intera» (Gv 16,7-13).

Gesù è venuto a restituire gli uomini a se stessi. E si dilegua per­ché possano essere interamente, nella mozione dello Spirito d'a­more, ciò che egli è stato, e fare ciò che egli ha fatto.

 

«...Siede alla destra di Dio Padre onnipotente...»

Il Simbolo si rifà, qui, a un'espressione figurativa tradizionale, che esprime la glorificazione del messia, chiamato a partecipare in pienezza alla gloria divina, cioè alla potenza e all'irradiamento del Dio onnipotente.

La formula è attinta dal Salmo 110, che canta la glorificazione del messia. Con alcune varianti viene ripresa da san Paolo nella Let­tera ai Romani (8,34) e dalla Lettera agli Ebrei (1,3).

La presenza e l'azione incessante del Risorto nel nostro mondo si realizzano sempre a partire da questo 'luogo' divino (se così si può dire), ossia da quell'aldilà inaccessibile dove Gesù è stato sta­bilito con la vittoria pasquale. Di lì egli comunica agli uomini la potenza d'amore che ha animato l'intera sua esistenza terrestre, per­ché possano, nel defluire della storia del mondo, proseguire la sua opera.

 

 

«...Di là verrà a giudicare i vivi e i morti...»

La fede accenna anche a ciò che è avvenuto dopo la manifesta­zione del Figlio di Dio sulla terra, e in particolare a quanto si è compiuto nel giorno di Pasqua. Lo fa allo scopo di fondare l'attesa di Colui che sempre precede i suoi e apre loro il cammino che li conduce al Padre, fondando l'attesa della sua nuova venuta a parti­re dal luogo della sua gloria.

Nel linguaggio dei teologi, si dice che la fede comporta una di­mensione escatologica. Ciò significa che essa è protesa verso il fu­turo, verso un termine ancora aspettato e che sostiene il suo di­namismo.

La nuova liturgia della messa ha rimesso fortemente in valore ta­le dimensione escatologica della fede, e particolarmente della fede sacramentale. Nell'acclamazione che accompagna la consacrazio­ne, i fedeli proclamano la presenza reale di Cristo nel sacramento per affermare l'attesa «della sua venuta».

Maranathà! «Vieni, Signore!» Il Nuovo Testamento ci ha con­servato, nella lingua aramaica originaria, questa preghiera dei pri­mi cristiani che chiude il libro dell'Apocalisse e quindi l'insieme della Scrittura: «Vieni, Signore Gesù!».

I cristiani conoscono bene chi è colui che aspettano come loro Giudice. Sanno che non vuole salvare gli uomini senza di loro e che intende sanzionare ciò che essi hanno voluto essere. Ma anche sanno che egli è venuto - come ha detto lui stesso - «a salvare ciò che era perduto» (Mt 18,11); e che possono aspettarlo senza pau­ra, anzi ricolmi di speranza, tutti coloro che ripongono fermamen­te in lui la loro fiducia.

 

 

 

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