Parrocchia di
S. Ambrogio in Mignanego (GE) |
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il 1° Comandamento Non avrai
altro Dio di fronte a me |
Il
cristiano è amico di Dio L'Antico
Testamento non poteva manifestarci la bellezza dell'amicizia e il tesoro di
un amico trovato, «medicamento della vita» (Ecc16,16), come si legge
particolarmente nei libri sapienziali, se non fosse stato già nell'aria di
una amicizia fra l'uomo e Dio. Abramo, dice S. Giacomo, «fu chiamato amico di
Dio» (Giac 2,23) e infatti in Isaia si legge che così egli fu dichiarato dal
Signore che estende, nel contesto del discorso, anche a Israele il senso
dell'amicizia, pur seguitando a chiamarlo "servo": «Ma tu, Israele,
mio servo, tu Giacobbe che ho scelto, discendente di Abramo mio amico, sei tu
che io ho preso dall'estremità della terra... non temere, perché io sono con
te; non smarrirti, perché io sono il tuo Dio» (Is 41, 8-9). Iddio di Abramo,
di Isacco e di Giacobbe non è il Dio distante e terribile delle religioni e
se è vero che l'Antico Testamento non instaura l'amicizia dell'uomo con Dio
propria del Nuovo Testamento, tuttavia Dio vi agisce e vi parla come un Dio
"vicino". Lo
intese il suo Popolo dalla bocca di Mosè: «Qual grande nazione ha la
divinità così vicina a sé, come il Signore nostro Dio è vicino a noi ogni
volta che lo invochiamo?» (Deut 5,7). Era il Popolo "eletto ", che
era stato gratuitamente scelto per amore, che era stato liberato dall'Egitto
e con il quale Jahvè aveva fatto "alleanza ". Il
tema dell'Alleanza, tradotto più intensamente da quello dello
"sposalizio", pone già nell'Antico Testamento una originale
dimensione di rapporti uomo-popoloDio. Questi vi si manifesta
"padre", "madre", "sposo", con gli accenti
della tenerezza sposale e protettiva, della potenza gelosa a difendere il
Popolo eletto, con l'impegno operativo a guidarne il cammino. Ed anche
quando giudica ed atterra fa sempre un "giudizio di salvezza" e
mette a prova per l'amore che salva. C'è
un'intensità intuibile in quel "mio" con cui Jahvè chiama Israele,
un'intensità che raggiunge il massimo di espressione in profeti della
sponsalità come Osea: «Oracolo del Signore!... La attirerò a me, la
condurrò nel deserto e parlerò al suo cuore... Ti farò mia sposa per sempre,
ti farò mia sposa nella giustizia e nel diritto, nella benevolenza e
nell'amore» (Os 2,1516,21). È
l'avvio a quanto avverrà nel Nuovo Testamento, il Testamento dell'amicizia
più reale nella grazia di Cristo. Dirà Gesù: «Non vi chiamo più
servi, perché il servo non sa quel che fa il suo padrone; ma vi ho chiamati
amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l'ho fatto conoscere a
voi» (Giov 15,15). E si tratta di una "amicizia di dilezione",
gratuita, quindi più stupenda: «Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi»
(Giov 15,18). Gesù chiama "amici" i suoi perché sta veramente per
accadere l'impensabile della nuova "comunione" fra Dio e l'uomo
che la Sua morte e resurrezione inaugureranno. L'amicizia che Dio aveva
mostrato con l'uomo, come con un Abramo (Is 41,8) un Mosè (Es 33,11) o i
profeti (Am 3,7), inviando nel mondo il Suo Figlio diventa nuova ed estesa
a tutti gli uomini. Con la venuta,di Cristo, Dio si è manifestato sovranamente
"amico degli uomini" (Tit 3,4). E S. Paolo scriverà: «Non siete più
stranieri né ospiti, ma concittadini dei santi e familiari di Dio» (Ef 2,9). Il primo
comandamento Nella
nostra tradizione catechistica esso suona così: « Io sono il Signore Dio
tuo: non avrai altro Dio fuori di me ». Le parole di questo comando sono
apodittiche, decise senza concessioni, esigenti senza attenuamenti. È e
dev'essere così se chi le suggerisce a Mosè è Dio, il vero, unico, Dio che
ci ha creati e da cui dipendiamo in tutto, per la vita e per la morte. Ma per
comprendere quel che anima, intanto, queste fra le "dieci parole",
tanto da renderle dolci, amabili e liberatorie, bisogna leggerle nel
contesto biblico in cui sono espresse. In tale contesto esse non perdono
nulla dell'autorità indiscutibile di Dio che vuole "regnare" ed
esige l'osservanza di quanto comanda. Ma come vi è descritto Dio "che
regna e regnerà" e a cui bisogna obbedire? È un Dio che nella
perentorietà mostra la presunta arbitrarietà della Sua autorità potente o
qualcos'altro? Ecco, la prima parte del primo comandamento come s'è imparato
nel catechismo è, in verità, una introduzione ai Suoi comandamenti e, nei
due passi biblici dove essi sono elencati (Es 20,1-17; Dt 5,6-21) dice così:«Io
sono Jahvè tuo Dio, che ti ho fatto uscire dall'Egitto, dalla casa di
schiavitù» (Dt 5,6). Il Dio dei nostri comandamenti è " Jahvè "
che non vuol dire soltanto « Io sono colui che sono » (Es 3,14) ad indicare
l'Essere infinito e misterioso nella Sua natura divina che tutto è e tutto
può, ma indica pure la Sua meravigliosa azione, il Suo "essere-pernoi",
il Suo essere presente e attivo nella storia d'Israele. Insomma, come dice il
testo citato, Colui che libera dall'Egitto e dei cui passi divini è piena la
storia del Suo popolo. Se Egli dice "tuo Dio", in quel
"tuo" c'è tutto l'amore dell'Alleanza, la tensione amorosa del
Padre, misericordioso e fedele, secondo chi dicevamo avanti, il quale, come
in uno sposalizio, rivela: «Camminerò in mezzo a voi, sarò il vostro Dio e
voi sarete il mio popolo» (Lev 26,12).
Prima dunque di dare i Suoi comandamenti Jahvè svela che è un Dio che ama e
che libera. È
importante pensare tutto questo perché per un siffatto Creatore, non assente
e distante nel Suo "cielo", ma "Dio-con-noi", si capisca
non solo quanto è giusto, ma anche quanto è bello, nella necessaria risposta
della vita religiosa, crederlo, amarlo, adorarlo e servirlo. Se infatti il
primo comandamento ci chiede di essere religiosi verso Jahvè con l'ossequiò
di fede della mente e del cuore, di risponderGli come "suoi" per
risposta d'amore ad un Amore donante, di darGli l'adorazione, a Dio dovuta,
nel cuore e nel culto visibile e comune, di servire con la risposta alla
Sua volontà e con la gloria che Gli diamo vivendo secondo i Suoi comandi, tutto
ciò è a noi domandato non solo perché Egli è, com'è, l'Unico vero Dio, ma
anche perché è "questo Dio" che si è rivelato con fatti e parole.
Di conseguenza non si può non ripetere, con il Salmista: «O Signore, nostro
Dio, quanto è grande il tuo nome su tutta la terra... » (Sal 8,1). E dal Suo
essere l'Unico vero Dio che "cammina fra noi" si comprende
l'inesorabile giustezza della Sua esigenza di "Assoluto-che-ama" ad
essere riconosciuto e senza giustapposizioni, non solo, ma nemmeno
considerazioni, di "idoli". L'empietà di chi nega Dio È
perciò che dal primo comandamento viene condannata l'empietà di chi nega
Dio e si rivolta contro di Lui con tutta quella complessa esistenza folle che
la Bibbia descrive quando parla degli "empi", come è condannata
l'irreligiosità di chi non riconoscendoLo non Gli dà quanto Gli è dovuto e
l'eresia di chi mal Lo riconosce formulando o seguendo su di Lui e su quanto
ci ha rivelato dottrine errate. Il
catechismo ci insegna anche che il primo comandamento proibisce anche l'ignoranza
colpevole delle verità della fede, perché di quì tutto è possibile. Ma un
altro punto essenziale caratterizza la Rivelazione biblica nei confronti di
questo comandamento e cioè la intollerabilità degli "idoli" da
parte di Dio. Ripensando alla Sacra Scrittura vengono a mente gli
"idoli" rovesciati e frantumati, gli "altri dei" fatti
da mani d'uomo o inventati dalla sua fantasia, in cui l'uomo confida come in
divinità (Sai 115,2-8), e che invece sono idoli "muti",
"morti", un "niente" (Sai 81,10) e "non giovano a nulla"
(Is 44,9-10). Ma l'idolatria che adora false divinità o, nella superstizione,
attribuisce a uomini e cose potenza divina, è una tentazione permanente e
varia nel tempo il suo oggetto. Il Nuovo Testamento parla del danaro (Mt
6,24) della volontà di dominio sull'uomo (Col 3,5; Ef 5,5) della potenza
politica (Ap 13,8), del piacere e dell'odio (Rom 6,19; Tit 3,3), del peccato
(Rom 6,6). Gli idoli si moltiplicano e l'uomo contemporaneo ne esalta
particolarmente quattro: danaro, potenza, sesso, violenza. Da essi si
attende la vita ed invece non fanno che condurre alla morte (Fil 3,19). E nel
cammino della morte sono segno di schiavitù. Dio ci chiede di frantumarli
non solo per Sé ma anche perché ci ama e vuole che abbiamo la Sua vita!
Obbedire poi a Dio in quanto ci comanda e proibisce il primo comandamento è
dolce e vitale. Obbediamo a Dio nostro "amico". E quanto ciò è più
reale e stupendo se assumiamo il comandamento nella "novità cristiana"
per cui, fatti "figli di Dio" per la grazia che ci santifica,
siamo "consorti della divina natura" e quindi "amici" di
Dio in un modo nuovo, profondamente reale, come non mai. Allora, nella
"grazia dialogale" tutto lo spazio della necessaria ricerca del
Volto di Dio ci diventa affascinante, gioioso, e somma gioia è meditare sulla
Sua Parola, ascoltare la Chiesa che di Dio ci parla come maestra. Ci è
enormemente più facile contare su di Lui che ci ha liberati ora, per
Cristo, dalla più grande "schiavitù del peccato e della morte" e a
Lui abbandonarsi nello spirito "filiale" proprio dei cristiani. E,
in particolar modo, diventa amabile l'adorazione che si esprime nel culto
nuovo e nella preghiera dei "figli", dentro i quali è lo Spirito
Santo che, «con gemiti inenarrabili, grida:"Abba! Padre"» (Gal
4,6). Rendere
al "nostro Dio" quanto Gli è dovuto, secondo il primo comandamento,
è per il cristiano una risposta facilitata perché nessuno più di lui conosce
"il dono di Dio" nel Cristo morto e risorto per noi e nei
posseduti beni messianici. È sull'aria della "gratitudine" ampiamente
motivata che possiamo cogliere l'intimo, dolcissimo lume delle parole: «Io
sono il Signore, Dio tuo: non avrai altro Dio fuori di me!...» Come sarebbe
possibile fare altrimenti, se Egli ci ha dato perfino Suo Figlio? |