Parrocchia di S. Ambrogio

in Mignanego (GE)

 

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strumenti di riflessione

 

 

 

Introduzione

1° Comandamento  -  2° Comandamento  -  3° Comandamento  -  4° Comandamento

5° Comandamento  -  6°-9° Comandamento/1  -  6°-9° Comandamento/2

7°-10° Comandamento  -  8° Comandamento

 

 

il 1° Comandamento

Non avrai altro Dio di fronte a me

 

Il cristiano è amico di Dio

 

L'Antico Testamento non poteva manifestarci la bellezza dell'a­micizia e il tesoro di un amico trovato, «medicamento della vita» (Ecc16,16), come si legge particolarmente nei libri sapienziali, se non fosse stato già nell'aria di una amicizia fra l'uomo e Dio. Abramo, dice S. Giacomo, «fu chiamato amico di Dio» (Giac 2,23) e infatti in Isaia si legge che così egli fu dichiarato dal Signo­re che estende, nel contesto del discorso, anche a Israele il senso dell'amicizia, pur seguitando a chiamarlo "servo": «Ma tu, Israele, mio servo, tu Giacobbe che ho scelto, discendente di Abramo mio amico, sei tu che io ho preso dall'estremità della terra... non temere, perché io sono con te; non smarrirti, perché io sono il tuo Dio» (Is 41, 8-9). Iddio di Abramo, di Isac­co e di Giacobbe non è il Dio distante e terribile delle religioni e se è vero che l'Antico Testamento non instaura l'amicizia dell'uomo con Dio propria del Nuovo Testamento, tuttavia Dio vi agisce e vi parla come un Dio "vicino".

Lo intese il suo Popolo dalla bocca di Mosè: «Qual grande na­zione ha la divinità così vicina a sé, come il Signore nostro Dio è vicino a noi ogni volta che lo invochiamo?» (Deut 5,7). Era il Popolo "eletto ", che era stato gratuitamente scelto per amore, che era stato liberato dall'Egitto e con il quale Jahvè aveva fatto "alleanza ".

Il tema dell'Alleanza, tra­dotto più intensamente da quello dello "sposalizio", po­ne già nell'Antico Testamen­to una originale dimensione di rapporti uomo-popolo­Dio. Questi vi si manifesta "padre", "madre", "sposo", con gli accenti della tenerez­za sposale e protettiva, della potenza gelosa a difendere il Popolo eletto, con l'impegno operativo a guidarne il cam­mino. Ed anche quando giu­dica ed atterra fa sempre un "giudizio di salvezza" e mette a prova per l'amore che sal­va.

C'è un'intensità intuibile in quel "mio" con cui Jahvè chiama Israele, un'intensità che raggiunge il massimo di espressione in profeti della sponsalità come Osea: «Ora­colo del Signore!... La atti­rerò a me, la condurrò nel de­serto e parlerò al suo cuore... Ti farò mia sposa per sempre, ti farò mia sposa nella giusti­zia e nel diritto, nella benevo­lenza e nell'amore» (Os 2,15­16,21).

È l'avvio a quanto avverrà nel Nuovo Testamento, il Te­stamento dell'amicizia più reale nella grazia di Cristo. Dirà Gesù: «Non vi chiamo

più servi, perché il servo non sa quel che fa il suo padrone; ma vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l'ho fatto conoscere a voi» (Giov 15,15). E si tratta di una "amicizia di dilezione", gratuita, quindi più stupenda: «Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi» (Giov 15,18). Gesù chiama "amici" i suoi perché sta veramente per ac­cadere l'impensabile della nuova "comunione" fra Dio e l'uomo che la Sua morte e resurrezione inaugureranno. L'amicizia che Dio aveva mostrato con l'uomo, come con un Abramo (Is 41,8) un Mosè (Es 33,11) o i profeti (Am 3,7), inviando nel mon­do il Suo Figlio diventa nuo­va ed estesa a tutti gli uomini. Con la venuta,di Cristo, Dio si è manifestato sovranamen­te "amico degli uomini" (Tit 3,4). E S. Paolo scriverà: «Non siete più stranieri né ospiti, ma concittadini dei santi e familiari di Dio» (Ef 2,9).

 

Il primo comandamento

 

Nella nostra tradizione ca­techistica esso suona così: « Io sono il Signore Dio tuo: non avrai altro Dio fuori di me ». Le parole di questo co­mando sono apodittiche, de­cise senza concessioni, esi­genti senza attenuamenti. È e dev'essere così se chi le sug­gerisce a Mosè è Dio, il vero, unico, Dio che ci ha creati e da cui dipendiamo in tutto, per la vita e per la morte. Ma per comprendere quel che anima, intanto, queste fra le "dieci parole", tanto da ren­derle dolci, amabili e libera­torie, bisogna leggerle nel contesto biblico in cui sono espresse. In tale contesto esse non perdono nulla dell'auto­rità indiscutibile di Dio che vuole "regnare" ed esige l'os­servanza di quanto comanda. Ma come vi è descritto Dio "che regna e regnerà" e a cui bisogna obbedire? È un Dio che nella perentorietà mostra la presunta arbitrarietà della Sua autorità potente o qual­cos'altro? Ecco, la prima par­te del primo comandamento come s'è imparato nel cate­chismo è, in verità, una intro­duzione ai Suoi comanda­menti e, nei due passi biblici dove essi sono elencati (Es 20,1-17; Dt 5,6-21) dice co­sì:«Io sono Jahvè tuo Dio, che ti ho fatto uscire dall'Egit­to, dalla casa di schiavitù» (Dt 5,6). Il Dio dei nostri coman­damenti è " Jahvè " che non vuol dire soltanto « Io sono co­lui che sono » (Es 3,14) ad indi­care l'Essere infinito e miste­rioso nella Sua natura divina che tutto è e tutto può, ma in­dica pure la Sua meravigliosa azione, il Suo "essere-per­noi", il Suo essere presente e attivo nella storia d'Israele. Insomma, come dice il testo citato, Colui che libera dal­l'Egitto e dei cui passi divini è piena la storia del Suo popo­lo. Se Egli dice "tuo Dio", in quel "tuo" c'è tutto l'amore dell'Alleanza, la tensione amorosa del Padre, miseri­cordioso e fedele, secondo chi dicevamo avanti, il quale, come in uno sposalizio, rive­la: «Camminerò in mezzo a voi, sarò il vostro Dio e voi sa­rete il mio popolo» (Lev

26,12). Prima dunque di dare i Suoi comandamenti Jahvè svela che è un Dio che ama e che libera.

È importante pensare tutto questo perché per un siffatto Creatore, non assente e di­stante nel Suo "cielo", ma "Dio-con-noi", si capisca non solo quanto è giusto, ma anche quanto è bello, nella necessaria risposta della vita religiosa, crederlo, amarlo, adorarlo e servirlo. Se infatti il primo comandamento ci chiede di essere religiosi ver­so Jahvè con l'ossequiò di fede della mente e del cuore, di risponderGli come "suoi" per risposta d'amore ad un Amore donante, di darGli l'a­dorazione, a Dio dovuta, nel cuore e nel culto visibile e co­mune, di servire con la rispo­sta alla Sua volontà e con la gloria che Gli diamo vivendo secondo i Suoi comandi, tut­to ciò è a noi domandato non solo perché Egli è, com'è, l'Unico vero Dio, ma anche perché è "questo Dio" che si è rivelato con fatti e parole. Di conseguenza non si può non ripetere, con il Salmista: «O Signore, nostro Dio, quan­to è grande il tuo nome su tutta la terra... » (Sal 8,1). E dal Suo essere l'Unico vero Dio che "cammina fra noi" si com­prende l'inesorabile giustezza della Sua esigenza di "Assoluto-che-ama" ad esse­re riconosciuto e senza giu­stapposizioni, non solo, ma nemmeno considerazioni, di "idoli".

 

L'empietà di chi nega Dio

 

È perciò che dal primo co­mandamento viene condan­nata l'empietà di chi nega Dio e si rivolta contro di Lui con tutta quella complessa esistenza folle che la Bibbia descrive quando parla degli "empi", come è condannata l'irreligiosità di chi non rico­noscendoLo non Gli dà quanto Gli è dovuto e l'eresia di chi mal Lo riconosce for­mulando o seguendo su di Lui e su quanto ci ha rivelato dottrine errate.

Il catechismo ci insegna anche che il primo comanda­mento proibisce anche l'igno­ranza colpevole delle verità della fede, perché di quì tutto è possibile. Ma un altro pun­to essenziale caratterizza la Rivelazione biblica nei con­fronti di questo comanda­mento e cioè la intollerabilità degli "idoli" da parte di Dio. Ripensando alla Sacra Scrit­tura vengono a mente gli "idoli" rovesciati e frantuma­ti, gli "altri dei" fatti da mani d'uomo o inventati dalla sua fantasia, in cui l'uomo confida come in divinità (Sai 115,2-8), e che invece sono idoli "muti", "morti", un "niente" (Sai 81,10) e "non giovano a nulla" (Is 44,9-10). Ma l'idolatria che adora false divinità o, nella superstizio­ne, attribuisce a uomini e co­se potenza divina, è una ten­tazione permanente e varia nel tempo il suo oggetto. Il Nuovo Testamento parla del danaro (Mt 6,24) della vo­lontà di dominio sull'uomo (Col 3,5; Ef 5,5) della potenza politica (Ap 13,8), del piacere e dell'odio (Rom 6,19; Tit 3,3), del peccato (Rom 6,6). Gli idoli si moltiplicano e l'uomo contemporaneo ne esalta particolarmente quat­tro: danaro, potenza, sesso, violenza. Da essi si attende la vita ed invece non fanno che condurre alla morte (Fil 3,19). E nel cammino della morte sono segno di schia­vitù. Dio ci chiede di frantu­marli non solo per Sé ma an­che perché ci ama e vuole che abbiamo la Sua vita! Obbedire poi a Dio in quanto ci comanda e proibi­sce il primo comandamento è dolce e vitale. Obbediamo a Dio nostro "amico". E quan­to ciò è più reale e stupendo se assumiamo il comanda­mento nella "novità cristia­na" per cui, fatti "figli di Dio" per la grazia che ci san­tifica, siamo "consorti della divina natura" e quindi "ami­ci" di Dio in un modo nuovo, profondamente reale, come non mai. Allora, nella "grazia dialogale" tutto lo spazio del­la necessaria ricerca del Vol­to di Dio ci diventa affasci­nante, gioioso, e somma gioia è meditare sulla Sua Parola, ascoltare la Chiesa che di Dio ci parla come maestra. Ci è enormemente più facile con­tare su di Lui che ci ha libera­ti ora, per Cristo, dalla più grande "schiavitù del pecca­to e della morte" e a Lui ab­bandonarsi nello spirito "filiale" proprio dei cristiani. E, in particolar modo, diven­ta amabile l'adorazione che si esprime nel culto nuovo e nella preghiera dei "figli", dentro i quali è lo Spirito Santo che, «con gemiti ine­narrabili, grida:"Abba! Pa­dre"» (Gal 4,6).

Rendere al "nostro Dio" quanto Gli è dovuto, secondo il primo comandamento, è per il cristiano una risposta facilitata perché nessuno più di lui conosce "il dono di Dio" nel Cristo morto e risor­to per noi e nei posseduti be­ni messianici. È sull'aria della "gratitudine" ampiamente motivata che possiamo co­gliere l'intimo, dolcissimo lu­me delle parole: «Io sono il Signore, Dio tuo: non avrai altro Dio fuori di me!...» Co­me sarebbe possibile fare al­trimenti, se Egli ci ha dato perfino Suo Figlio?

 

 

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