Parrocchia di
S. Ambrogio in Mignanego (GE) |
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il 5°
Comandamento Non
uccidere |
La
vita: dono, gioia, impegno «Ma si può
dare le dimissioni dalla vita...?!?", in certi momenti di stanchezza o di
crisi profonda questa espressione diventa qualcosa di più che una battuta ad
effetto. Capita quando si pensa di... "essere condannati a
vivere!". La Bibbia non è d'accordo. «Ti lodo, o Signore, perché mi hai
fatto come un prodigio: sono stupende le tue opere, ma tu mi conosci fino in
fondo»: il salmista mostra una qualità oggi molto rara, cioè la capacità di
meravigliarsi gioiosamente per la vita che si ha tra le mani. « Un
prodigio», gli occhi che vedono l'azzurro del cielo, la pelle che si abbronza
al sole, il cuore che ama, i piedi che calciano il pallone, l'intelligenza
che capisce, il gesto che saluta, le dita che schioccano... "un
prodigio". Il salmo chiama "vita" questa realtà immediata:
alla "vita" siamo stati chiamati, non solo come esseri intelligenti,
liberi, spirituali... ma come persone complete, in carne ed ossa, con questa
nostra esperienza terrena e fisica. «Sei tu che hai create le mie viscere -
continua il salmo 138 - e mi hai tessuto nel seno di mia madre; non ti erano
nascoste le mie ossa quando venivo formato nel segreto». A queste
antiche espressioni, sempre vive perché Parola di Dio, fa eco il Concilio
Vaticano II (la Chiesa di oggi) quando così riassume la prospettiva
costantemente positiva e buona dell'uomocorpo, dell'uomo-concreto,
dell'uomo-vita: «non è lecito all'uomo disprezzare la vita corporale, egli
anzi è tenuto a considerare buono e degno di onore il proprio corpo appunto
perché creato da Dio e destinato alla risurrezione». E più oltre: «è la
dignità stessa dell'uomo che postula che egli glorifichi Dio nel proprio
corpo». La Parola
di Dio e della Chiesa ci apre la strada per una riflessione serena e seria
su questo dono palpabile che è la vita: un dono di Dio che fonda tutti gli
altri, compresa l'eternità! Rimane però anche un dono esigente che richiede
precise responsabilità. C'è da rispettare la vita, c'è da sviluppare la vita,
c'è da difendere la vita... Ecco allora i tre momenti di questa proposta: - l'uomo è
tutto di Dio - la vita
va custodita e fatta crescere - la vita
esige rispetto in noi e negli altri. L'uomo (anima + corpo) è tutto di Dio Una manciata di quattro idee ci può aiutare mentre accostiamo la meravigliosa realtà che è l'uomo: L'uomo viene dalle mani di Dio Nella Bibbia questa ferma convinzione è professata ad ogni pagina, nei modi più diversi: col canto, col salmo, con la poesia, con un brandello di storia, con un proverbio sapienziale... Una delle idee-madri che filtra dal mondo biblico è proprio questa: Dio conosce a perfezione ogni uomo e lo ama, lo avvolge della sua presenza perché è Lui che lo ha chiamato all'esistenza. «Ancora informe mi hanno visto i tuoi occhi e tutto era scritto nel tuo libro; i miei giorni erano fissati, quando ancora non ne esisteva uno». Il doppio racconto della creazione (Gen 1-2) riveste questa verità di immagini popolari, vivaci, plastiche. L'idea di fondo è sempre la stessa: la vita dell'uomo è frutto del puro amore di Dio, «Egli che dà ad ognuno la vita, il respiro, tutto» (At 17,25). Dunque il motto del femminismo nostrano ("io sono mia") è decisamente antibiblico: l'uomo non può appartenere a se stesso soltanto o ad altri, ma è radicato in Dio, è nelle sue mani: Lui solo dona e conserva l'esistenza terrena! L'uomo viene da Dio tutto quanto, anima e corpo Ci sono dei sedimenti nella nostra mentalità che spesso ci giocano brutti scherzi, facendo piegare inconsciamente in certe direzioni il pensiero, la coscienza e la volontà. Uno di questi sedimenti spacca in due la visione dell'uomo: l'anima, lo spirito dell'uomo certamente viene da Dio, ma il corpo no, viene... dal Maligno! Qui dobbiamo fare un'affermazione abbastanza forte, che "disinquini" una volta per tutte il nostro modo di pensare. Questa idea non solo è completamente estranea alla visione biblica dell'uomo, ma ne è addirittura contraria. La Bibbia non conosce l'antagonismo, l'opposizione, la divisione netta tra anima e corpo. Tra le pagine della Scrittura troviamo l'UOMO e basta! cioè l'uomo concreto, che vive, che ama, che soffre, che sbaglia, che cerca Dio. Dal mondo biblico ci viene presentato un essere profondamente unitario, la persona umana, anche se questa espressione non viene usata nel linguaggio e nella cultura semita. I termini variano, si accostano, si completano... ma sempre per cogliere la stretta unità vitale dell'uomo. Un esempio evidentissimo di questa visione globale è nel salmo 63: «Ha sete di Te l'anima mia, ti desidera la mia carne». Anche quando leggiamo il N.T. dobbiamo fare attenzione a non lasciarci intrappolare dai nostri schemi disgiuntivi o contrapposti. Infatti Paolo parla sì dell'uomo "spirituale" e "carnale", ma non per riferirsi all'anima e al corpo (così come istintivamente potremmo pensare noi). Invece vuole scrutare ancora tutto l'uomo, che è salvato da Cristo ("spirituale") oppure che è rimasto sotto la legge del peccato ("carnale"). Il Concilio Vatic. II ha recuperato questa visione unitaria e l'ha riespressa così:« E' l'uomo dunque, ma l'uomo integrale, nell'unità del corpo e dell'anima, di cuore e di coscienza, di intelletto e di volontà, che sarà il cardine della nostra esposizione» (GS 3). Riassumendo: l'uomo non è un essere spirituale che possiede un corpo, ma è corpo come è spirito. La vita fisica è segno di quella interiore Ma c'è di più! L`uomo biblico" (per così dire) non solo si presenta sempre come un essere unico impastato di corpo e anima, ma rivela al suo interno un "rimando" reciproco di alto significato (cioè: corpo e anima sono l'uno il segno dell'altra!). Ci spieghiamo. Come è possibile agli uomini entrare in comunione tra di loro? come possono veramente incontrarsi, capirsi, scambiarsi idee, condividere emozioni, esprimere sentimenti? Solo attraverso l'elemento corporeo! L'uomo parla e comunica con il corpo, che diventa così segno, simbolo, tramite dell'intimo. Già si intravede l'enorme valenza positiva o negativa che questa profonda e personale realtà contiene. Siamo di fronte alla verità, alla trasparenza, alla genuinità dell'uomo, oppure possiamo incappare nella sua doppiezza, nella sua ipocrisia, nella sua falsità: a seconda che il corpo rivela o nasconde il sentire interiore, a seconda che i gesti e le parole sono specchio o maschera dell'anima. Non per nulla la Bibbia usa il verbo "conoscersi" per indicare l'unione sessuale tra l'uomo e la donna. Ancora il Vaticano II mette in risalto il ruolo della corporeità là dove l'amore umano deve farsi visibile e manifestarsi (GS 49). Anche il corpo è redento e perciò tempio dello Spirito Nel nostro "recupero" del corpo in chiave cristiana siamo giunti all'aspetto più ricco e più bello. E' la fede che ce lo offre. La dignità dell'uomo-corpo non risiede solo nel rapporto con DioCreatore, ma si fonda anche e soprattutto sull'amore di Cristo Redentore. Come tutto l'uomo si è deteriorato nella vicenda amara del peccato (e anche il corpo ne è stato travolto), così tutto l'uomo (corpo compreso) è stato redento da Cristo, con destinazione gloriosa alla fine dei tempi. È necessario leggere attentamente quanto S. Paolo scrive ai cristiani di Corinto con accenti appassionati (I Cor 6,13). Sottolineiamo appena le espressioni più "forti": «il corpo è per il Signore, ed il Signore per il corpo»; «il vostro corpo è tempio dello Spirito Santo»; «glorificate dunque Dio nel vostro corpo». Riordiniamo alcune idee di fondo al termine di questa riflessione preliminare: - la vita nel presente è proiettata verso l'eternità - la vita nel tempo e nello spazio condiziona la vita eterna (quest'ultima dipende dalle opere compiute «mentre era nel suo corpo, sia in bene che in male» (II Cor 5,10). Dunque la vita fisica è il terreno unico e privilegiato su cui ci si gioca la gloria e la gioia eterna con Cristo. Concretamente qui ora si ha una moneta insostituibile da spendere in prospettiva. Il tempo presente, impastato di materia e spirito, è tutto da scommettere: la posta in gioco è alta. Si tratta di far fruttare un capitale per l'eternità, trafficandolo, moltiplicandolo, valorizzandolo al massimo, per sé e per i fratelli. Il discorso a questo punto si fa interessante ed impegnativo. Proviamo a fissarne appena qualche spunto. La vita custodita e sviluppata A volte basta anche solo un'emicrania o una cattiva digestione per compromettere certe attività intellettuali, per mandare all'aria la preghiera, per turbare il proprio equilibrio. Dunque il "tutt'uno" che è l'uomo dipende in larga misura dalla buona salute del corpo. Prima conseguenza assai facile a tirarsi: per il cristiano curare la salute fisica è dovere primario! L'alimentazione, il sonno, il riposo, l'igiene... posseggono una rilevanza morale. Si tratta di "costruire" nel modo migliore quella parte dell'uomo così fragile e precaria, qual è la vita fisica. Con prudenza, con intelligenza, con sano realismo va dosata ogni cura (senza esagerazioni) per rendere se stessi capaci di rispondere al disegno di Dio. Ogni persona adulta non può "stralciare" questo dovere fondamentale dai piani, dai programmi, dai progetti della propria esistenza. In egual misura sono interessati i genitori nei confronti dei figli minori, la comunità nei confronti delle condizioni sanitarie pubbliche. Qui non siamo sul terreno del facoltativo, ma nel campo di forti esigenze etiche. Sembrerà strano, ma in questa prospettiva va fatto rientrare anche il "fattoresport", come elemento che sostiene e irrobustisce la salute. In una sana attività sportiva i giovani sperimentano un salutare allenamento della volontà, oltre a dover socializzare e fraternizzare. Ciononostante le cronache quotidiane ci riportano anche aspetti per nulla "decoubertiniani" dello sport. Crediamo non sia un discorso retrogrado, anche se può sembrare impopolare. Stiamo parlando però in difesa dell'uomo. Quando lo sport, da gioco qual'è e deve restare, diviene una forma di schiavitù, di rischio mortale, di droga (sia per chi lo pratica sia per chi vi assiste e fa il cosiddetto "tifo") perde il suo valore morale con gravi conseguenze disumanizzanti. Qualità della vita Oggi si parla con insistenza a destra e a sinistra di una nuova "qualità della vita". Sono in ballo grossi equivoci morali. Se per "qualità della vita" si vuole contrabbandare una indebita distinzione tra le vite umane (alcune di serie A, altre di serie B...), si è giunti ad un punto pericolosissimo della convivenza umana. Infatti in base a questo criterio discriminante ci si può sentire autorizzati a sacrificare altri pur di salvarsi, o anche solo per star meglio (es. emarginando prima moralmente e poi fisicamente, fino all'eliminazione graduale ma decisa, di ogni vita che non rende, che è di peso, che non produce o comunque che è fuori del "giro" ritenuto standard per l'uomo d'oggi). In ogni caso quando si tende a buttare sui piatti di una bilancia diverse vite umane, e si è tentati di stabilirne il valore più o meno alto, più o meno utile, più o meno vantaggioso... è la vita in sé e per sé che è svilita e svalutata! Il problema "qualità della vita" per noi cristiani si colloca su un altro piano. Nella fede sappiamo e crediamo che la dignità delle persone si fonda in Dio. La vita umana "sic et simpliciter" è dono di Dio. Non ci sono distinzioni o graduatorie che tengano: ogni vita, qualunque essa sia, per il solo fatto che c'è, rivela il volto di Dio, sua immagine vivente. Perciò siamo di fronte ad un valore assoluto, irripetibile, da rispettarsi sempre e comunque, senza eccezioni alcune. L'importanza della vita non può assolutamente misurarsi e stabilirsi in base a quanto si realizza o si possiede come cose, potere, fama, efficienza, forza, prestigio... Neppure in base a quanto si può offrire alla società. La più forte accusa Anzi le ingiustizie macroscopiche e le discriminazioni stridenti che pongono in scala gli uomini che pure sono pari in dignità fondamentale, costituiscono la più forte accusa e insieme il più acuto appello al cristiano che non può più dormire di fronte a condizioni disumanizzanti dalle proporzioni mondiali come la fame, l'ignoranza, la disoccupazione, la mancanza di case, l'oppressione e lo sfruttamento. Siamo realisti, amici, e un pochino provocatori: mentre 30 milioni di persone ogni anno muoiono per denutrizione, non si può continuare a preoccuparsi sul come, sul quando, sul dove cambiare annualmente i tappeti di casa, o la tappezzeria alle pareti, o i mobili del salotto... Senza contare che tutto l'aiuto economico fornito dai Paesi industrializzati a quelli in via di sviluppo è di 30 volte minore della spesa per gli armamenti!!! Qui il cristiano ha un grave compito: incarnare concretamente l'eretta concezione della vita che vale per quello che è e non per quello che ha. Francamente, è triste doverlo ammettere, proprio nel nostro mondo occidentale con una presenza cristiana bimillenaria c'è da registrare uno scadimento di questa sensibilità. Un itinerario di conversione, che faccia riscoprire impellenti esigenze di giustizia, s'impone senza troppi ritardi. Soprattutto sembra urgente per noi cristiani della "società dei consumi" saper dire di no ai falsi bisogni creati da una pubblicità sapientemente orchestrata, da cui ci facciamo accalappiare... mentre c'è chi è privo di alimenti indispensabili, chi non può usufruire di cure sanitarie, chi è senza scuole. La vita va rispettata in noi e negli
altri Finora sommariamente abbiamo indicato alcune grandi linee in positivo, che possono condurci a quello sbocco altamente umano che è la custodia e lo sviluppo adeguato della vita. Purtroppo però non possiamo dimenticare che in negativo ci sono (dietro l'angolo) gravi attentati e irrimediabili offese alla vita stessa. il suicidio «Scrivo queste righe perché un nostro compagno si è suicidato. Purtroppo fatti come questi sono sempre più frequenti. Ma quando muore un ragazzo con cui hai lottato e ti sei divertito insieme, non puoi fare a meno di restare sgomento e di provare un tardivo senso di colpa... morire così, da solo, in una giornata d'agosto, in un'auto piena di gas di scarico... no! morire così è disumano. Non possiamo fare a meno di guardarci negli occhi senza avere il coraggio di chiederci se anche noi lo abbiamo ucciso, se anche noi siamo morti un po' con lui...» (sono stralci di una lettera apparsa su "Lotta continua", il 27 nov. 1977, a firma "un compagno di Roberto", e Roberto era un ragazzo ventenne suicidatosi pochi mesi prima). Dunque il togliersi la vita non è infrequente. Vi proponiamo solo un dato fornito dal dott. G. Bressa dell'Istituto di Psichiatria dell'Università di Roma: nella sola capitale durante il triennio'64-'67 si registrarono 484 suicidi, mentre nel triennio '74-'77 il numero complessivo è salito a 542! Al di là di ognuno di questi casi e dei migliaia che annualmente si verificano nel mondo, c'è una storia particolare, c'è una tragedia, con un intreccio di fattori e di elementi che rendono la valutazione del suicidio tremendamente complessa e pietosa, bisognosa più di comprensione che di condanne. Malattie psichiche e fisiche, difficoltà grosse nella vita, solitudine e individualismo generati dalla nostra società del benessere, emarginazione e abbandono soprattutto nella vecchiaia, dramma del non-senso della vita che coglie spesso in condizioni psicologiche precarie, introversione e isolamento... tutto questo e altro ancora (che rimane chiuso nel mistero di ogni uomo) può sconvolgere e perturbare talmente la coscienza da condurre anche l'uomo normale al suicidio. Si può affermare che raramente si giunge in piena consapevolezza e lucidità a questo estremo passo. Tuttavia pur rispettando il dramma segreto di tante vite umane che si sono autodistrutte, non possiamo esimerci dal valutare un tale atto così significativo perché, almeno oggettivamente, sintomo di una concezione pagana della vita stessa. Dall'antichità classica fino all'uomo moderno, il suicidio è ritenuto una specie di diritto e un gesto altamente positivo ed eroico. Citiamo per tutti Nietzsche: «l'uomo è libero per la morte e nella morte». La visione cristiana invece è nettamente contraria da sempre, senza eccezioni. La ragione è ovvia: l'uomo non gestisce la vita come sua proprietà illimitata, ma la riceve in dono da Dio. Egli rimane il Datore e il Padrone della vita. L'uomo è chiamato ad usarla, come dono, come bene prezioso per sé e per i fratelli. Ergersi a padrone indiscriminato della vita, sostituendosi a Dio, è atto di arbitrio gravissimo. Non è il caso di insistere, poiché tutta la Bibbia e la Rivelazione gridano questa verità: per l'uomo biblico, fedele a Dio, il suicidio è inconcepibile. Piuttosto è bene precisare quando è lecito, anzi meritorio e doveroso mettere in pericolo, rischiare, offrire la propria vita (il cosiddetto suicidio indiretto). La condizione base è che il porre a repentaglio la propria vita sia fatto in vista di uno scopo buono, specie se molto alto e nobile. Ad es. un P. Damiano che va nell'isola di Molokai ad assistere e curare i lebbrosi pur consapevole dei rischi di contagio che corre, vive la parola di Gesù: «nessuno ha amore più grande di questo, dare la vita per i propri amici» (Gv 15,13). Certo il motivo deve essere decisamente importante, e non solo utile in qualche modo o, meno ancora, futile. I seri rischi a cui ci si espone in taluni sport (pugilato, alpinismo, automobilismo) non sono giustificabili solo in base all'agonismo o al successo: ci si trova all'interno di motivazioni insufficienti, (se non anche) deteriori. Sempre su questo fronte non vanno dimenticati i pericoli che corre la salute nei posti di lavoro, specie in certe industrie. Un severo richiamo ai responsabili pubblici e privati va fatto perché le condizioni di lavoro non risultino occasione prossima o remota, diretta o indiretta di intossicazione, di malattia, di infortunio. Anche in questo caso va ricordato a chiare lettere che la salute non ha prezzo. Tutte le possibili misure di sicurezza fisica e di salvaguardia igienica vanno adottate pur se costose. Gli stessi lavoratori non devono accattare di giocarsi indebitamente la salute in cambio di denaro (monetizzazione del rischio). Ancora un accenno a quel settore della scienza e della medicina che sembra porre quesiti morali nei suoi sviluppi e nelle sue recenti applicazioni: stiamo parlando dei vari interventi sull'organismo umano che vanno sotto il nome di mutilazione e trapianti. In questi casi va tenuto presente l'obiettivo di fondo: salvare la vita, non distruggerla! Quindi, subordinati a tale principio, tali interventi sono moralmente leciti e doverosi in linea di massima. Logicamente ogni operazione o sperimentazione va realizzata entro debite condizioni di prudenza e scienza. L'omicidio La storia e la cronaca di tutti i tempi è piena zeppa di questo triste delitto, consumato in mille modi ma con un unico risultato: privare un fratello della vita fisica. Dagli albori dell'umanità fino ad oggi continua a risuonare, come grido minaccioso, il terribile monito rivolto a Caino: «Che hai fatto? sento il sangue di tuo fratello gridare a me dalla terra» (Gen 4,10). Tutti i codici umani, religiosi o atei che siano, hanno ritenuto e riaffermato questa fondamentale proibizione: "NON UCCIDERE!". È il quinto comandamento, riconosciuto sotto ogni latitudine come cardine imprescindibile di ogni convivenza umana! La morale cristiana ha precisato questo divieto indicandolo come uccisione diretta della vita innocente sempre e comunque. I due aggettivi che entrano in questa definizione non sono superflui. Perché diciamo diretta innanzi tutto? Perché come per il suicidio, si danno casi nella vita in cui posso essere causa dell'uccisione di altri in modo indiretto (es. in un incidente stradale, senza colpa alcuna, perché è avvenuto un guasto meccanico improvviso). Perché diciamo innocente? Perché, dati i limiti umani, possono verificarsi delle situazioni di conflitto tra la vita personale e quella di un altro. È il caso in cui ci si pub e spesso ci si deve difendere da un aggressore che attenta ingiustamente- alla propria incolumità. Se per poter salvare me stesso o la mia famiglia sono costretto, mio malgrado, a colpire la persona che mi sta assalendo e giungo, non potendo fare altrimenti, fino ad uccidere, questo omicidio non voluto né cercato non va addebitato a me, ma al suo comportamento aberrante. Certo sono casi tragici che lasciano il segno per sempre nella coscienza di chi ne è protagonista. Pur trattandosi di esperienze choccanti, resta però chiaro che non si può ritenere colpevole di omicidio chi difende se stesso o la propria famiglia. Che dire della pena di morte? Tutti sanno che per secoli non si è dubitato della liceità di questa suprema punizione. Anzi molti oggi vorrebbero ripristinarla là dove è stata abolita (in Italia, di recente, è riemersa da più parti una tale proposta come antidoto al dilagare del terrorismo e della delinquenza più crudele). Per la verità sono reazioni alquanto emotive. In realtà se si esaminano con attenzione le ragioni che tradizionalmente si portano a sostegno della pena di morte ci si accorge che sono molto discutibili. Né il bene comune da difendere, né tantomeno l'effetto deterrente (negli stati dove è in vigore, l'indice di criminalità è superiore a quello degli altri che sono privi di questa pena estrema), né la giustizia da compiersi (a ben guardare ha più il sapore della vendetta che non della giustizia!) sembrano esigere l'esecuzione capitale anche dei criminali più feroci. Se aggiungiamo il rischio (sempre possibile degli errori giudiziari), e soprattutto l'impossibilità di sondare la reale responsabilità dell'uomo, la totale incapacità di effetti correttivi, possiamo concludere affermando che attualmente la pena di morte è ingiustificabile dal punto di vista morale cristiano. La buona morte è una morte buona? La vita va rispettata e protetta soprattutto nei momenti in cui l'uomo si trova in condizioni di particolare debolezza e del tutto indifeso. Alludiamo alla speciale situazione della vita umana al suo inizio e alla sua naturale conclusione. Si tratta, come è facile capire, del problema aborto e del problema eutanasia. Tralasciando il primo poiché sarà oggetto di un apposito fascicolo tutto dedicato al tema così grave ed attuale (in tutti i suoi risvolti teologici, giuridici, sociali e pastorali), vogliamo riflettere in questa sede sull'eutanasia. Siamo di fronte ad una parola che ormai sta diventando usuale e che letteralmente significa "buona morte" (intendendo di fatto una morte indolore quando è possibile). Più precisamente con il termine "eutanasia" si vuole indicare la morte procurata di un malato grave ed inguaribile, cercando di liberarlo così da dolori fisici e da angoscie morali: insomma lo si vorrebbe sottrarre ad una agonia lunga e piena di sofferenze. "Eutanasia" diventa sinonimo di uccisione pietosa, che rende la morte più facile e la fa apparire come una specie di liberazione. Spesso sono i parenti a chiedere questo ambiguo atto di pietà; qualche volta è lo stesso malato; in alcuni stati si tende a legiferare in materia rendendola legale, (Dio non voglia) obbligatoria. La valutazione cristiana non lascia dubbi, anche se si pone su un terreno molto impegnativo. L'eutanasia, pur presentata come forma di pietà verso i sofferenti, rimane sempre un'uccisione vera e propria, quindi illecita e inammissibile. Nessuno infatti, né il malato, né il medico, né tantomeno lo stato hanno il diritto di decidere il momento in cui porre la parola fine alla vita. Il dono dell'esistenza viene dato in gestione, non in dominio assoluto e indiscriminato all'uomo stesso. Inoltre la pratica dell'eutanasia viene a significare il rifiuto esplicito del valore che il dolore e la morte hanno come strumenti nelle mani di Dio per la purificazione in vista della vita eterna. Certo, per afferrare il senso difficile e duro di questi ultimi valori, è indispensabile coglierli nella luce della fede. L'illiceità dell'eutanasia che anticipa la morte, rivelandosi soppressione di vita umana (gesto gravemente lesivo del V comandamento), non pregiudica né esclude ogni cura per alleviare la sofferenza. Quindi rimane possibile e moralmente lecito attutire il dolore con calmanti, anche se questo uso di analgesici può comportare come effetto secondario un certo abbreviamento della vita, non voluto e non procurato direttamente. Rianimare: fino a quando? La problematica in merito all'eutanasia rimanda (sia pure in modo inesatto) ad una serie di interrogativi circa la rianimazione e la conservazione artificiale della vita. Ormai è diventata familiare l'espressione (accompagnata da immagine che trasuda asetticità) "sala di rianimazione": gli ospedali più attrezzati ne sono forniti. L'uso di questi strumenti permette di intervenire, dopo la morte clinica e prima di quella biologica, e mette in grado di riattivare le funzioni vitali (cuore-polmoni...). In taluni casi (che vanno fortunatamente aumentando) si è riusciti a far riprendere la vita umana in pieno. Se questo risultato è una seria possibilità, cioè se si hanno fondate speranze di riportare il paziente al recupero non solo della vita vegetativa ma pure di quella intellettiva (anche solo in parte), è doveroso farne uso per quanto concretamente è fattibile. Tutto questo rientra in quella estesa battaglia in favore della vita che si combatte su molteplici fronti. Ugualmente la pratica della rianimazione artificiale, pur non restituendo all'uomo la sua vita personale, tuttavia può creare le condizioni per il prelievo di organi ancora vitali (rene, cuore, cornea...) in vista di eventuali trapianti, in questo caso è da considerarsi senz'altro un atto umano e cristiano degno di ogni stima. Quando invece non si riesca a recuperare la vita personale degna dell'uomo, o perché si è arrivati troppo tardi (nel caso in cui oltre alla morte clinica è sopravvenuta anche quella biologica o cerebrale con chiari fenomeni di irreversibilità) o per altre cause, il prolungare la vita vegetativa unicamente grazie a tecniche artificiali non è affatto obbligatorio. Quindi non è proibito "staccare" (come si usa dire) l'apparecchiatura rianimativa. Anzi se questa potesse servire ad altri malati con speranza di dare ripresa piena alla vita, questo "stacco" potrebbe configurarsi come doveroso. Ricordiamo che qui non si tratta di scegliere tra due vite (cosa sempre illecita) ma tra una vita ancora rianimabile ed una del tutto spenta. Sono da porre in questa luce recenti fatti drammatici avvenuti negli Stati Uniti, di cui si è occupata largamente la stampa. A questo proposito rimarchiamo una distinzione decisamente importante per evitare approssimazioni e confusioni su un terreno delicatissimo. Una cosa è lo stato di morte cerebrale, connesso con la rianimazione cuorepolmoni, altra cosa è lo stato di coma profondo e prolungato (anche per anni). In questa seconda situazione infatti la morte cerebrale non è avvenuta e non si può escludere la reversibilità del coma stesso: troncare l'erogazione dei sussidi artificiali a questo punto significherebbe precludere ogni possibilità di ripresa. Si tratterebbe di atto illecito. Esperimentare si ma per l'uomo Un capitolo ancora in gran
parte da scrivere sia dal punto di vista scientifico che morale, è quello
circa la esperimentazione sull'uomo. Gli enormi progressi degli ultimi decenni nel campo biologico hanno permesso, sul piano strettamente tecnico passi da giganti. Sovente si parla di vera e propria manipolazione, addirittura a livello genetico, quindi alla fonte della vita stessa. Lasciando per ora da parte il problema dei trapianti, a cui in qualche modo si è già accennato, e gettando un po' d'acqua sul fuoco di eccessivi entusiasmi sul piano scientifico (spesso si parla, sulla stampa, con grande facilità più di fantascienza che di scienza vera e propria), ci preme mettere in luce i seri problemi morali sollevati da queste nuove e radicali possibilità circa il futuro suo e dei suoi discendenti. Occorre anche qui distinguere con precisione. Se per manipolazione genetica s'intende il lavoro di ingegneria o chirurgia genetica, per cui si tenta di rimuovere gli elementi che possono causare malattie o minorazioni, è ovvio che questi tipi d'intervento chiaramente rivolti al bene dell'uomo rientrano nelle cure lecite e, nei limiti del possibile, doverose. Se invece per manipolazione genetica si intende l'eugenetica (ossia: buona riproduzione, una specie di selezione) siamo di fronte ad una scienza che studia un'opportuna combinazione di geni per ottenere un miglioramento della razza umana. A questo livello la visione umana e cristiana della vita solleva gravi perplessità in proposito. Infatti non si deve dimenticare che la vita dell'uomo non è riducibile alla sua realtà biologica, ma va sempre oltre. Quindi non tutto ciò che è possibile tecnicamente è per ciò stesso un valore per l'uomo. Certamente non lo è quando viola o non permette di rispettare altri valori tipici dell'uomo più importanti ancora della buona salute fisica od anche intellettuale. Chi ha diritto (ad es.) di programmare gli uomini del futuro? chi stabilirà i tipi da conservare e quelli da eliminare? con quale autorità? che ne sarà della libertà e della dignità morale dell'uomo proprio nell'atto più grande della sua esistenza, quello di collaborare a trasmettere la vita? Interrogativi inquietanti Questi gli interrogativi inquietanti che rimangono in tutta la loro drammatica gravità. L'estate '78 è stata occupata in gran parte dal felice parto inglese da cui nacque Louise Brown, la bimba concepita in laboratorio e sviluppatasi nel grembo materno: la stampa mondiale vi ha riservato uno spazio e un interesse eccezionali. Proprio pochi giorni prima della sua elezione a Papa, il card. Luciani ebbe modo di commentare l'avvenimento. «Primo, condivido solo in parte l'entusiasmo di chi plaude al progresso della scienza e della tecnica dopo la nascita della bambina inglese. Non ogni progresso giova all'uomo. Le armi ABC (atomiche, batteriologiche, chimiche) sono state giudicate un progresso, ma anche un disastro per l'umanità. La possibilità di avere figli "in vitro" - se non disastri - pone almeno dei grossi rischi. Per ora non è dato sapere se aumenteranno le malformazioni... Secondo, faccio anch'io i più cordiali auguri alla bambina. Quanto ai genitori non ho alcun diritto di condannarli. Soggettivamente se hanno operato con retta intenzione ed in buona fede, essi possono perfino aver merito davanti a Dio... Terzo, la fecondazione extra-uterina in vitro è lecita? Dio ha legato la trasmissione della vita alla sessualità coniugale. La fecondazione artificiale è lecita quando l'intervento del medico facilita o aiuta soltanto il concepimento, continuando in qualche modo un atto matrimoniale già compiuto. Altro è il caso in cui l'artifizio addirittura esclude o sostituisce l'atto matrimoniale. Non trovo motivi validi, nell'episodio della piccola Louise, per scostarmi da questa norma». Al di là del felice esperimento dei coniugi Brown, non sono fugati tutti i rischi (anche gravi) cui si può andare incontro con questo affidamento cieco dell'uomo alla tecnica. Lo spettro delle aberrazioni di Hitler si prospetta inevitabilmente all'orizzonte. E non sembri sospetto eccessivo e macabro. La selezione della razza si mostra una subdola tentazione, magari camuffata di falso umanitarismo. Un'operazione del genere può andar bene nel campo animale, non certo per l'uomo che come è frutto dell'amore personale di Dio così deve essere frutto dell'amore personale di due altre creature, un uomo ed una donna, sia pure aiutati, ma non sostituiti dai sussidi scientifici e medici. Sulle questioni morali suscitate dall'esperimentazione sull'uomo di nuovi farmaci o di interventi inediti, brevemente possiamo dire questo: - la medicina a favore dell'uomo ha sempre proceduto attraverso la sperimentazione e il rischio, pena l'impossibilità del progresso; - è ovvio che prima di provare sull'uomo occorre esperire tutte le possibilità sugli animali; - sull'uomo stesso; quando si tratta di tentare la guarigione personale dell'interessato bisogna che ci sia una giusta proporzione tra il rischio e la prospettiva del buon esito; - quando invece si è nel campo della ricerca scientifica e solo indirettamente si pensa alla guarigione della persona, occorre ricordare che la persona singola non è un pezzo anonimo del tutto (la società) ma ha una sola dignità, unica e inalienabile, per cui non può essere sacrificato arbitrariamente sugli altari del progresso scientifico; - è comunque sempre inamissibile la discriminazione tra persone ai fini della esperimentazione in base a criteri estrinseci (posizione sociale, economica, di potere, ecc... l'antico "in corpore vili" è anticristiano e antiumano). Inoltre è inammissibile ogni esperimentazione fatta all'insaputa dell'interessato o dei suoi responsabili morali. In una parola, dobbiamo ricordare che l'uomo non è una "cosa" (interscambiabile!?!), ma un essere carico di insopprimibile dignità, qualsiasi condizione sociale od umana lo veda protagonista. Non c'è chi pesa di più o di meno sulla bilancia della vita umana. L'uomo sempre padrone di se stesso Un ultimo capitolo (non in senso assoluto, ma relativamente al nostro spazio e ai nostri intenti) è quello che concerne l'uso di alcool e di droghe, in genere di ogni sostanza capace di influenzare e modificare profondamente la struttura e la condizione psico-fisica dell'uomo. Non ci attardiamo in cifre preoccupanti e drammatiche che stanno a dimostrare la capillare e spaventosa diffusione di stupefacenti soprattutto nel tessuto giovanile di questa nostra corrosa società dei consumi. L'attualità di questo fenomeno è di un'evidenza impressionante. Proprio mentre scriviamo, abbiamo sul tavolo aperta la pagina di cronaca di un quotidiano torinese ove si racconta la morte di Fabrizio (17 anni) ucciso nell'ambiente dei drogati, tra quella malavita fiorente che smercia eroina e spinelli. Gli studi e le indagini in questo campo "minato" sono numerosissimi. In questa sede ci limitiamo a richiamare alcuni spunti per una valutazione morale: - l'uso di sostanze che rientrano in senso largo nell'accezione di droga può essere richiesto in medicina per il bene dell'uomo ed allora non fa problema; - l'uso di stupefacenti può essere invece impiegato esplicitamente o implicitamente per evadere dalla realtà e dalla vita (con le sue esigenze), o per lo meno per creare indebita ebbrezza ed euforia e da allora diventa abuso; - l'abuso in questo ambito va chiaramente condannato poiché comporta o può provocare gravi danni al fisico e ancora di più alla sfera psichica dell'uomo. Non è ragionevole privarsi volontariamente dell'uso della intelligenza e della volontà per sottrarsi ai propri discendenti a causa dell'ereditarietà alterata. Ancora: c'è la triste possibilità di rendersi parzialmente o del tutto inabili, gravando così la comunità di un peso anziché fornire un aiuto; - resta da risolvere e da affrontare l'insieme aggrovigliato delle cause che portano facilmente all'abuso di droga, specialmente nelle fasce dei giovani e dei giovanissimi: cause familiari, sociali, personali che poi si riassumono in crisi di valori morali su cui fondare la propria vita; - un aspetto importante (sempre dal punto di vista morale) è quello della responsabilità che coinvolge la famiglia e la società. C'è tutto un lavoro di recupero e di prevenzione per strappare e difendere i minori dagli spacciatori di droga, per curare i malati, per dare risposte autentiche al "vuoto di tutto", perché è proprio su questo sfaldarsi di ragioni vitali che la soluzione-droga trova il suo terreno più fertile. |