Parrocchia di S. Ambrogio

in Mignanego (GE)

 

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strumenti di riflessione

 

 

 

Introduzione

1° Comandamento  -  2° Comandamento  -  3° Comandamento  -  4° Comandamento

5° Comandamento  -  6°-9° Comandamento/1  -  6°-9° Comandamento/2

7°-10° Comandamento  -  8° Comandamento

 

 

il 5° Comandamento

Non uccidere

 

La vita: dono, gioia, impegno

 

«Ma si può dare le dimissioni dalla vita...?!?", in certi momenti di stanchezza o di crisi profonda questa espressione diventa qual­cosa di più che una battuta ad effetto. Capita quando si pensa di... "essere condannati a vivere!". La Bibbia non è d'accordo. «Ti lo­do, o Signore, perché mi hai fatto come un prodigio: sono stu­pende le tue opere, ma tu mi conosci fino in fondo»: il salmista mostra una qualità oggi molto rara, cioè la capacità di meravi­gliarsi gioiosamente per la vita che si ha tra le mani.

« Un prodigio», gli occhi che vedono l'azzurro del cielo, la pelle che si abbronza al sole, il cuore che ama, i piedi che calciano il pallone, l'intelligenza che capisce, il gesto che saluta, le dita che schioccano... "un prodigio". Il salmo chiama "vita" questa realtà immediata: alla "vita" siamo stati chiamati, non solo come esseri intelligenti, liberi, spirituali... ma come persone complete, in carne ed ossa, con questa nostra esperienza terrena e fisica. «Sei tu che hai create le mie viscere - continua il salmo 138 - e mi hai tessuto nel seno di mia madre; non ti erano nascoste le mie ossa quando venivo formato nel segreto».

A queste antiche espressioni, sempre vive perché Parola di Dio, fa eco il Concilio Vaticano II (la Chiesa di oggi) quando così rias­sume la prospettiva costantemente positiva e buona dell'uomo­corpo, dell'uomo-concreto, dell'uomo-vita: «non è lecito all'uomo disprezzare la vita corporale, egli anzi è tenuto a considerare buo­no e degno di onore il proprio corpo appunto perché creato da Dio e destinato alla risurrezione». E più oltre: «è la dignità stessa del­l'uomo che postula che egli glorifichi Dio nel proprio corpo».

La Parola di Dio e della Chiesa ci apre la strada per una rifles­sione serena e seria su questo dono palpabile che è la vita: un dono di Dio che fonda tutti gli altri, compresa l'eternità! Rimane però anche un dono esigente che richiede precise responsabilità. C'è da rispettare la vita, c'è da sviluppare la vita, c'è da difendere la vita... Ecco allora i tre momenti di questa proposta:

- l'uomo è tutto di Dio

- la vita va custodita e fatta crescere

- la vita esige rispetto in noi e negli altri.

 

 

L'uomo (anima + corpo) è tutto di Dio

Una manciata di quattro idee ci può aiutare mentre accostiamo la meravigliosa realtà che è l'uomo:

 

L'uomo viene dalle mani di Dio

Nella Bibbia questa ferma convinzione è professata ad ogni pagina, nei modi più di­versi: col canto, col salmo, con la poesia, con un bran­dello di storia, con un prover­bio sapienziale... Una delle idee-madri che filtra dal mon­do biblico è proprio questa: Dio conosce a perfezione ogni uomo e lo ama, lo avvolge della sua presenza perché è Lui che lo ha chiamato all'esistenza. «Ancora informe mi hanno vi­sto i tuoi occhi e tutto era scrit­to nel tuo libro; i miei giorni erano fissati, quando ancora non ne esisteva uno».

Il doppio racconto della creazione (Gen 1-2) riveste questa verità di immagini po­polari, vivaci, plastiche. L'i­dea di fondo è sempre la stes­sa: la vita dell'uomo è frutto del puro amore di Dio, «Egli che dà ad ognuno la vita, il respiro, tutto» (At 17,25).

Dunque il motto del fem­minismo nostrano ("io sono mia") è decisamente antibi­blico: l'uomo non può appar­tenere a se stesso soltanto o ad altri, ma è radicato in Dio, è nelle sue mani: Lui solo do­na e conserva l'esistenza ter­rena!

 

L'uomo viene da Dio tutto quanto, anima e corpo

Ci sono dei sedimenti nella nostra mentalità che spesso ci giocano brutti scherzi, facen­do piegare inconsciamente in certe direzioni il pensiero, la coscienza e la volontà. Uno di questi sedimenti spacca in due la visione dell'uomo: l'a­nima, lo spirito dell'uomo certamente viene da Dio, ma il corpo no, viene... dal Mali­gno! Qui dobbiamo fare un'affermazione abbastanza forte, che "disinquini" una volta per tutte il nostro modo di pensare. Questa idea non solo è completamente estra­nea alla visione biblica del­l'uomo, ma ne è addirittura contraria. La Bibbia non co­nosce l'antagonismo, l'oppo­sizione, la divisione netta tra anima e corpo. Tra le pagine della Scrittura troviamo l'UOMO e basta! cioè l'uomo concreto, che vive, che ama, che soffre, che sbaglia, che cerca Dio. Dal mondo bibli­co ci viene presentato un es­sere profondamente unitario, la persona umana, anche se questa espressione non viene usata nel linguaggio e nella cultura semita. I termini va­riano, si accostano, si completano... ma sempre per co­gliere la stretta unità vitale dell'uomo. Un esempio evi­dentissimo di questa visione globale è nel salmo 63: «Ha sete di Te l'anima mia, ti desi­dera la mia carne».

Anche quando leggiamo il N.T. dobbiamo fare attenzio­ne a non lasciarci intrappola­re dai nostri schemi disgiunti­vi o contrapposti. Infatti Pao­lo parla sì dell'uomo "spiri­tuale" e "carnale", ma non per riferirsi all'anima e al cor­po (così come istintivamente potremmo pensare noi). In­vece vuole scrutare ancora tutto l'uomo, che è salvato da Cristo ("spirituale") oppure che è rimasto sotto la legge del peccato ("carnale").

Il Concilio Vatic. II ha re­cuperato questa visione uni­taria e l'ha riespressa così:« E' l'uomo dunque, ma l'uomo integrale, nell'unità del corpo e dell'anima, di cuore e di co­scienza, di intelletto e di vo­lontà, che sarà il cardine del­la nostra esposizione» (GS 3). Riassumendo: l'uomo non è un essere spirituale che pos­siede un corpo, ma è corpo come è spirito.

 

La vita fisica è segno di quella interiore

Ma c'è di più! L`uomo bi­blico" (per così dire) non solo si presenta sempre come un essere unico impastato di corpo e anima, ma rivela al suo interno un "rimando" re­ciproco di alto significato (cioè: corpo e anima sono l'u­no il segno dell'altra!). Ci spieghiamo. Come è possibile agli uomini entrare in comu­nione tra di loro? come pos­sono veramente incontrarsi, capirsi, scambiarsi idee, con­dividere emozioni, esprimere sentimenti? Solo attraverso l'elemento corporeo!

L'uomo parla e comunica con il corpo, che diventa così segno, simbolo, tramite del­l'intimo. Già si intravede l'e­norme valenza positiva o ne­gativa che questa profonda e personale realtà contiene. Siamo di fronte alla verità, al­la trasparenza, alla genuinità dell'uomo, oppure possiamo incappare nella sua doppiez­za, nella sua ipocrisia, nella sua falsità: a seconda che il corpo rivela o nasconde il sentire interiore, a seconda che i gesti e le parole sono specchio o maschera dell'ani­ma.

Non per nulla la Bibbia usa il verbo "conoscersi" per in­dicare l'unione sessuale tra l'uomo e la donna.

Ancora il Vaticano II met­te in risalto il ruolo della cor­poreità là dove l'amore uma­no deve farsi visibile e mani­festarsi (GS 49).

 

Anche il corpo è redento e perciò tempio dello Spirito

Nel nostro "recupero" del corpo in chiave cristiana sia­mo giunti all'aspetto più ric­co e più bello. E' la fede che ce lo offre. La dignità dell'uomo-corpo non risiede solo nel rapporto con Dio­Creatore, ma si fonda anche e soprattutto sull'amore di Cristo Redentore. Come tut­to l'uomo si è deteriorato nel­la vicenda amara del peccato (e anche il corpo ne è stato travolto), così tutto l'uomo (corpo compreso) è stato re­dento da Cristo, con destina­zione gloriosa alla fine dei tempi.

È necessario leggere atten­tamente quanto S. Paolo scri­ve ai cristiani di Corinto con accenti appassionati (I Cor 6­,13). Sottolineiamo appena le espressioni più "forti": «il corpo è per il Signore, ed il Si­gnore per il corpo»; «il vostro corpo è tempio dello Spirito Santo»; «glorificate dunque Dio nel vostro corpo».

Riordiniamo alcune idee di fondo al termine di questa riflessione preliminare:

- la vita nel presente è proiettata verso l'eternità

- la vita nel tempo e nello spazio condiziona la vita eter­na (quest'ultima dipende dal­le opere compiute «mentre era nel suo corpo, sia in bene che in male» (II Cor 5,10).

Dunque la vita fisica è il terreno unico e privilegiato su cui ci si gioca la gloria e la gioia eterna con Cristo. Con­cretamente qui ora si ha una moneta insostituibile da spendere in prospettiva. Il tempo presente, impastato di materia e spirito, è tutto da scommettere: la posta in gio­co è alta. Si tratta di far frut­tare un capitale per l'eternità, trafficandolo, moltiplicando­lo, valorizzandolo al massi­mo, per sé e per i fratelli.

Il discorso a questo punto si fa interessante ed impegna­tivo. Proviamo a fissarne ap­pena qualche spunto.

 

La vita custodita e sviluppata

A volte basta anche solo un'emicrania o una cattiva digestione per compromette­re certe attività intellettuali, per mandare all'aria la pre­ghiera, per turbare il proprio equilibrio. Dunque il "tutt'u­no" che è l'uomo dipende in larga misura dalla buona sa­lute del corpo. Prima conse­guenza assai facile a tirarsi: per il cristiano curare la salu­te fisica è dovere primario! L'alimentazione, il sonno, il riposo, l'igiene... posseggono una rilevanza morale. Si trat­ta di "costruire" nel modo migliore quella parte dell'uo­mo così fragile e precaria, qual è la vita fisica. Con pru­denza, con intelligenza, con sano realismo va dosata ogni cura (senza esagerazioni) per rendere se stessi capaci di ri­spondere al disegno di Dio.

Ogni persona adulta non può "stralciare" questo dove­re fondamentale dai piani, dai programmi, dai progetti della propria esistenza. In egual misura sono interessati i genitori nei confronti dei figli minori, la comunità nei confronti delle condizioni sa­nitarie pubbliche. Qui non siamo sul terreno del facolta­tivo, ma nel campo di forti esigenze etiche.

Sembrerà strano, ma in questa prospettiva va fatto rientrare anche il "fattore­sport", come elemento che sostiene e irrobustisce la salu­te. In una sana attività sporti­va i giovani sperimentano un salutare allenamento della volontà, oltre a dover socia­lizzare e fraternizzare. Ciono­nostante le cronache quoti­diane ci riportano anche aspetti per nulla "decouberti­niani" dello sport. Credia­mo non sia un discorso retro­grado, anche se può sembra­re impopolare. Stiamo par­lando però in difesa dell'uo­mo. Quando lo sport, da gio­co qual'è e deve restare, di­viene una forma di schiavitù, di rischio mortale, di droga (sia per chi lo pratica sia per chi vi assiste e fa il cosiddetto "tifo") perde il suo valore morale con gravi conseguen­ze disumanizzanti.

 

Qualità della vita

Oggi si parla con insistenza a destra e a sinistra di una nuova "qualità della vita".

Sono in ballo grossi equi­voci morali. Se per "qualità della vita" si vuole contrab­bandare una indebita distin­zione tra le vite umane (alcu­ne di serie A, altre di serie B...), si è giunti ad un punto pericolosissimo della convi­venza umana. Infatti in base a questo criterio discriminante ci si può sentire autorizzati a sacrificare altri pur di salvar­si, o anche solo per star me­glio (es. emarginando prima moralmente e poi fisicamen­te, fino all'eliminazione gra­duale ma decisa, di ogni vita che non rende, che è di peso, che non produce o comun­que che è fuori del "giro" ri­tenuto standard per l'uomo d'oggi).

In ogni caso quando si ten­de a buttare sui piatti di una bilancia diverse vite umane, e si è tentati di stabilirne il va­lore più o meno alto, più o meno utile, più o meno van­taggioso... è la vita in sé e per sé che è svilita e svalutata! Il problema "qualità della vita" per noi cristiani si colloca su un altro piano. Nella fede sappiamo e crediamo che la dignità delle persone si fonda in Dio. La vita umana "sic et simpliciter" è dono di Dio. Non ci sono distinzioni o gra­duatorie che tengano: ogni vita, qualunque essa sia, per il solo fatto che c'è, rivela il volto di Dio, sua immagine vivente. Perciò siamo di fron­te ad un valore assoluto, irri­petibile, da rispettarsi sempre e comunque, senza eccezioni alcune. L'importanza della vita non può assolutamente misurarsi e stabilirsi in base a quanto si realizza o si possie­de come cose, potere, fama, efficienza, forza, prestigio... Neppure in base a quanto si può offrire alla società.

 

La più forte accusa

Anzi le ingiustizie macro­scopiche e le discriminazioni stridenti che pongono in sca­la gli uomini che pure sono pari in dignità fondamentale, costituiscono la più forte ac­cusa e insieme il più acuto appello al cristiano che non può più dormire di fronte a condizioni disumanizzanti dalle proporzioni mondiali come la fame, l'ignoranza, la disoccupazione, la mancanza di case, l'oppressione e lo sfruttamento.

Siamo realisti, amici, e un pochino provocatori: mentre 30 milioni di persone ogni an­no muoiono per denutrizio­ne, non si può continuare a preoccuparsi sul come, sul quando, sul dove cambiare annualmente i tappeti di ca­sa, o la tappezzeria alle pare­ti, o i mobili del salotto... Senza contare che tutto l'aiu­to economico fornito dai Paesi industrializzati a quelli in via di sviluppo è di 30 volte minore della spesa per gli ar­mamenti!!!

Qui il cristiano ha un grave compito: incarnare concreta­mente l'eretta concezione della vita che vale per quello che è e non per quello che ha. Francamente, è triste doverlo ammettere, proprio nel no­stro mondo occidentale con una presenza cristiana bimil­lenaria c'è da registrare uno scadimento di questa sensibi­lità. Un itinerario di conver­sione, che faccia riscoprire impellenti esigenze di giusti­zia, s'impone senza troppi ri­tardi. Soprattutto sembra ur­gente per noi cristiani della "società dei consumi" saper dire di no ai falsi bisogni creati da una pubblicità sa­pientemente orchestrata, da cui ci facciamo accalappia­re... mentre c'è chi è privo di alimenti indispensabili, chi non può usufruire di cure sa­nitarie, chi è senza scuole.

 

La vita va rispettata in noi e negli altri

Finora sommariamente ab­biamo indicato alcune grandi linee in positivo, che possono condurci a quello sbocco altamente umano che è la cu­stodia e lo sviluppo adeguato della vita. Purtroppo però non possiamo dimenticare che in negativo ci sono (die­tro l'angolo) gravi attentati e irrimediabili offese alla vita stessa.

 

il suicidio

«Scrivo queste righe per­ché un nostro compagno si è suicidato. Purtroppo fatti co­me questi sono sempre più frequenti. Ma quando muore un ragazzo con cui hai lottato e ti sei divertito insieme, non puoi fare a meno di restare sgomento e di provare un tar­divo senso di colpa... morire così, da solo, in una giornata d'agosto, in un'auto piena di gas di scarico... no! morire così è disumano. Non possia­mo fare a meno di guardarci negli occhi senza avere il co­raggio di chiederci se anche noi lo abbiamo ucciso, se an­che noi siamo morti un po' con lui...» (sono stralci di una lettera apparsa su "Lotta continua", il 27 nov. 1977, a firma "un compagno di Ro­berto", e Roberto era un ra­gazzo ventenne suicidatosi pochi mesi prima).

Dunque il togliersi la vita non è infrequente. Vi propo­niamo solo un dato fornito dal dott. G. Bressa dell'Istitu­to di Psichiatria dell'Univer­sità di Roma: nella sola capi­tale durante il triennio'64-'67 si registrarono 484 suicidi, mentre nel triennio '74-'77 il numero complessivo è salito a 542!

Al di là di ognuno di questi casi e dei migliaia che an­nualmente si verificano nel mondo, c'è una storia parti­colare, c'è una tragedia, con un intreccio di fattori e di ele­menti che rendono la valuta­zione del suicidio tremenda­mente complessa e pietosa, bisognosa più di comprensio­ne che di condanne. Malattie psichiche e fisiche, difficoltà grosse nella vita, solitudine e individualismo generati dalla nostra società del benessere, emarginazione e abbandono soprattutto nella vecchiaia, dramma del non-senso della vita che coglie spesso in con­dizioni psicologiche precarie, introversione e isolamento... tutto questo e altro ancora (che rimane chiuso nel miste­ro di ogni uomo) può scon­volgere e perturbare talmen­te la coscienza da condurre anche l'uomo normale al sui­cidio. Si può affermare che raramente si giunge in piena consapevolezza e lucidità a questo estremo passo.

Tuttavia pur rispettando il dramma segreto di tante vite umane che si sono autodi­strutte, non possiamo esimer­ci dal valutare un tale atto così significativo perché, al­meno oggettivamente, sinto­mo di una concezione pagana della vita stessa. Dall'anti­chità classica fino all'uomo moderno, il suicidio è ritenu­to una specie di diritto e un gesto altamente positivo ed eroico. Citiamo per tutti Nie­tzsche: «l'uomo è libero per la morte e nella morte». La visione cristiana invece è net­tamente contraria da sempre, senza eccezioni. La ragione è ovvia: l'uomo non gestisce la vita come sua proprietà illi­mitata, ma la riceve in dono da Dio. Egli rimane il Datore e il Padrone della vita. L'uo­mo è chiamato ad usarla, co­me dono, come bene prezio­so per sé e per i fratelli. Er­gersi a padrone indiscrimina­to della vita, sostituendosi a Dio, è atto di arbitrio gravis­simo. Non è il caso di insiste­re, poiché tutta la Bibbia e la Rivelazione gridano questa verità: per l'uomo biblico, fe­dele a Dio, il suicidio è incon­cepibile.

Piuttosto è bene precisare quando è lecito, anzi merito­rio e doveroso mettere in pe­ricolo, rischiare, offrire la propria vita (il cosiddetto sui­cidio indiretto). La condizio­ne base è che il porre a re­pentaglio la propria vita sia fatto in vista di uno scopo buono, specie se molto alto e nobile. Ad es. un P. Damiano che va nell'isola di Molokai ad assistere e curare i lebbro­si pur consapevole dei rischi di contagio che corre, vive la parola di Gesù: «nessuno ha amore più grande di questo, da­re la vita per i propri amici» (Gv 15,13). Certo il motivo deve essere decisamente im­portante, e non solo utile in qualche modo o, meno anco­ra, futile. I seri rischi a cui ci si espone in taluni sport (pu­gilato, alpinismo, automobili­smo) non sono giustificabili solo in base all'agonismo o al successo: ci si trova all'inter­no di motivazioni insufficien­ti, (se non anche) deteriori.

Sempre su questo fronte non vanno dimenticati i peri­coli che corre la salute nei posti di lavoro, specie in cer­te industrie. Un severo richia­mo ai responsabili pubblici e privati va fatto perché le con­dizioni di lavoro non risultino occasione prossima o remota, diretta o indiretta di intossi­cazione, di malattia, di infor­tunio. Anche in questo caso va ricordato a chiare lettere che la salute non ha prezzo. Tutte le possibili misure di si­curezza fisica e di salvaguar­dia igienica vanno adottate pur se costose. Gli stessi lavo­ratori non devono accattare di giocarsi indebitamente la salute in cambio di denaro (monetizzazione del rischio).

Ancora un accenno a quel settore della scienza e della medicina che sembra porre quesiti morali nei suoi sviluppi e nelle sue recenti applica­zioni: stiamo parlando dei va­ri interventi sull'organismo umano che vanno sotto il no­me di mutilazione e trapianti. In questi casi va tenuto pre­sente l'obiettivo di fondo: sal­vare la vita, non distruggerla! Quindi, subordinati a tale principio, tali interventi sono moralmente leciti e doverosi in linea di massima. Logica­mente ogni operazione o spe­rimentazione va realizzata entro debite condizioni di prudenza e scienza.

 

L'omicidio

La storia e la cronaca di tutti i tempi è piena zeppa di questo triste delitto, consu­mato in mille modi ma con un unico risultato: privare un fratello della vita fisica. Dagli albori dell'umanità fino ad oggi continua a risuonare, co­me grido minaccioso, il terri­bile monito rivolto a Caino: «Che hai fatto? sento il sangue di tuo fratello gridare a me dal­la terra» (Gen 4,10). Tutti i codici umani, religiosi o atei che siano, hanno ritenuto e riaffermato questa fonda­mentale proibizione: "NON UCCIDERE!".

È il quinto comandamento, riconosciuto sotto ogni latitu­dine come cardine imprescin­dibile di ogni convivenza umana! La morale cristiana ha precisato questo divieto indicandolo come uccisione diretta della vita innocente sempre e comunque.

I due aggettivi che entrano in questa definizione non so­no superflui. Perché diciamo diretta innanzi tutto? Perché come per il suicidio, si danno casi nella vita in cui posso es­sere causa dell'uccisione di altri in modo indiretto (es. in un incidente stradale, senza colpa alcuna, perché è avve­nuto un guasto meccanico improvviso). Perché diciamo innocente? Perché, dati i limiti umani, possono verificarsi delle situazioni di conflitto tra la vita personale e quella di un altro. È il caso in cui ci si pub e spesso ci si deve di­fendere da un aggressore che attenta ingiustamente- alla propria incolumità. Se per poter salvare me stesso o la mia famiglia sono costretto, mio malgrado, a colpire la persona che mi sta assalendo e giungo, non potendo fare altrimenti, fino ad uccidere, questo omicidio non voluto né cercato non va addebitato a me, ma al suo comporta­mento aberrante.

Certo sono casi tragici che lasciano il segno per sempre nella coscienza di chi ne è protagonista. Pur trattandosi di esperienze choccanti, resta però chiaro che non si può ri­tenere colpevole di omicidio chi difende se stesso o la pro­pria famiglia.

 

Che dire della pena di morte?

Tutti sanno che per secoli non si è dubitato della liceità di questa suprema punizione. Anzi molti oggi vorrebbero ripristinarla là dove è stata abolita (in Italia, di recente, è riemersa da più parti una tale proposta come antidoto al di­lagare del terrorismo e della delinquenza più crudele). Per la verità sono reazioni al­quanto emotive. In realtà se si esaminano con attenzione le ragioni che tradizional­mente si portano a sostegno della pena di morte ci si ac­corge che sono molto discuti­bili. Né il bene comune da di­fendere, né tantomeno l'ef­fetto deterrente (negli stati dove è in vigore, l'indice di criminalità è superiore a quello degli altri che sono privi di questa pena estrema), né la giustizia da compiersi (a ben guardare ha più il sapore della vendetta che non della giustizia!) sembrano esigere l'esecuzione capitale anche dei criminali più feroci. Se aggiungiamo il rischio (sem­pre possibile degli errori giu­diziari), e soprattutto l'impos­sibilità di sondare la reale re­sponsabilità dell'uomo, la to­tale incapacità di effetti cor­rettivi, possiamo concludere affermando che attualmente la pena di morte è ingiu­stificabile dal punto di vista morale cristiano.

 

La buona morte è una morte buona?

La vita va rispettata e pro­tetta soprattutto nei momenti in cui l'uomo si trova in con­dizioni di particolare debo­lezza e del tutto indifeso. Al­ludiamo alla speciale situa­zione della vita umana al suo inizio e alla sua naturale con­clusione. Si tratta, come è fa­cile capire, del problema aborto e del problema eutana­sia.

Tralasciando il primo poiché sarà oggetto di un ap­posito fascicolo tutto dedica­to al tema così grave ed at­tuale (in tutti i suoi risvolti teologici, giuridici, sociali e pastorali), vogliamo riflettere in questa sede sull'eutanasia.

Siamo di fronte ad una pa­rola che ormai sta diventando usuale e che letteralmente si­gnifica "buona morte" (inten­dendo di fatto una morte in­dolore quando è possibile). Più precisamente con il ter­mine "eutanasia" si vuole in­dicare la morte procurata di un malato grave ed inguaribi­le, cercando di liberarlo così da dolori fisici e da angoscie morali: insomma lo si vorreb­be sottrarre ad una agonia lunga e piena di sofferenze. "Eutanasia" diventa sinoni­mo di uccisione pietosa, che rende la morte più facile e la fa apparire come una specie di liberazione. Spesso sono i parenti a chiedere questo am­biguo atto di pietà; qualche volta è lo stesso malato; in al­cuni stati si tende a legiferare in materia rendendola legale, (Dio non voglia) obbligatoria. La valutazione cristiana non lascia dubbi, anche se si pone su un terreno molto im­pegnativo. L'eutanasia, pur presentata come forma di pietà verso i sofferenti, rima­ne sempre un'uccisione vera e propria, quindi illecita e inammissibile. Nessuno infat­ti, né il malato, né il medico, né tantomeno lo stato hanno il diritto di decidere il mo­mento in cui porre la parola fine alla vita. Il dono dell'esi­stenza viene dato in gestione, non in dominio assoluto e in­discriminato all'uomo stesso. Inoltre la pratica dell'eutana­sia viene a significare il rifiuto esplicito del valore che il do­lore e la morte hanno come strumenti nelle mani di Dio per la purificazione in vista della vita eterna. Certo, per afferrare il senso difficile e duro di questi ultimi valori, è indispensabile coglierli nella luce della fede.

L'illiceità dell'eutanasia che anticipa la morte, rive­landosi soppressione di vita umana (gesto gravemente le­sivo del V comandamento), non pregiudica né esclude ogni cura per alleviare la sof­ferenza. Quindi rimane possi­bile e moralmente lecito attu­tire il dolore con calmanti, anche se questo uso di anal­gesici può comportare come effetto secondario un certo abbreviamento della vita, non voluto e non procurato direttamente.

 

Rianimare: fino a quando?

La problematica in merito all'eutanasia rimanda (sia pu­re in modo inesatto) ad una serie di interrogativi circa la rianimazione e la conserva­zione artificiale della vita. Ormai è diventata familia­re l'espressione (accompa­gnata da immagine che trasu­da asetticità) "sala di rianimazione": gli ospedali più at­trezzati ne sono forniti. L'uso di questi strumenti permette di intervenire, dopo la morte clinica e prima di quella bio­logica, e mette in grado di riattivare le funzioni vitali (cuore-polmoni...). In taluni casi (che vanno fortunata­mente aumentando) si è riu­sciti a far riprendere la vita umana in pieno. Se questo ri­sultato è una seria possibilità, cioè se si hanno fondate spe­ranze di riportare il paziente al recupero non solo della vi­ta vegetativa ma pure di quel­la intellettiva (anche solo in parte), è doveroso farne uso per quanto concretamente è fattibile. Tutto questo rientra in quella estesa battaglia in favore della vita che si com­batte su molteplici fronti. Ugualmente la pratica della rianimazione artificiale, pur non restituendo all'uomo la sua vita personale, tuttavia può creare le condizioni per il prelievo di organi ancora vitali (rene, cuore, cornea...) in vista di eventuali trapianti, in questo caso è da conside­rarsi senz'altro un atto uma­no e cristiano degno di ogni stima.

Quando invece non si rie­sca a recuperare la vita per­sonale degna dell'uomo, o perché si è arrivati troppo tardi (nel caso in cui oltre alla morte clinica è sopravvenuta anche quella biologica o ce­rebrale con chiari fenomeni di irreversibilità) o per altre cause, il prolungare la vita vegetativa unicamente grazie a tecniche artificiali non è af­fatto obbligatorio. Quindi non è proibito "staccare" (come si usa dire) l'apparec­chiatura rianimativa. Anzi se questa potesse servire ad altri malati con speranza di dare ripresa piena alla vita, questo "stacco" potrebbe configu­rarsi come doveroso. Ricor­diamo che qui non si tratta di scegliere tra due vite (cosa sempre illecita) ma tra una vita ancora rianimabile ed una del tutto spenta. Sono da porre in questa luce recenti fatti drammatici avvenuti negli Stati Uniti, di cui si è occupa­ta largamente la stampa.

A questo proposito rimar­chiamo una distinzione deci­samente importante per evi­tare approssimazioni e confu­sioni su un terreno delicatissi­mo. Una cosa è lo stato di morte cerebrale, connesso con la rianimazione cuore­polmoni, altra cosa è lo stato di coma profondo e prolungato (anche per anni). In questa seconda situazione infatti la morte cerebrale non è avve­nuta e non si può escludere la reversibilità del coma stesso: troncare l'erogazione dei sus­sidi artificiali a questo punto significherebbe precludere ogni possibilità di ripresa. Si tratterebbe di atto illecito.

 

Esperimentare si ma per l'uomo

Un capitolo ancora in gran parte da scrivere sia dal punto di vista scientifico che morale, è quello circa la esperimenta­zione sull'uomo.

Gli enormi progressi degli ultimi decenni nel campo biologico hanno permesso, sul piano strettamente tecni­co passi da giganti. Sovente si parla di vera e propria mani­polazione, addirittura a livel­lo genetico, quindi alla fonte della vita stessa. Lasciando per ora da parte il problema dei trapianti, a cui in qualche modo si è già accennato, e gettando un po' d'acqua sul fuoco di eccessivi entusiasmi sul piano scientifico (spesso si parla, sulla stampa, con gran­de facilità più di fantascienza che di scienza vera e pro­pria), ci preme mettere in lu­ce i seri problemi morali sol­levati da queste nuove e radi­cali possibilità circa il futuro suo e dei suoi discendenti.

Occorre anche qui distin­guere con precisione. Se per manipolazione genetica s'in­tende il lavoro di ingegneria o chirurgia genetica, per cui si tenta di rimuovere gli ele­menti che possono causare malattie o minorazioni, è ov­vio che questi tipi d'interven­to chiaramente rivolti al bene dell'uomo rientrano nelle cu­re lecite e, nei limiti del possi­bile, doverose.

Se invece per manipolazio­ne genetica si intende l'euge­netica (ossia: buona riprodu­zione, una specie di selezio­ne) siamo di fronte ad una scienza che studia un'oppor­tuna combinazione di geni per ottenere un miglioramen­to della razza umana.

A questo livello la visione umana e cristiana della vita solleva gravi perplessità in proposito. Infatti non si deve dimenticare che la vita del­l'uomo non è riducibile alla sua realtà biologica, ma va sempre oltre. Quindi non tut­to ciò che è possibile tecnica­mente è per ciò stesso un va­lore per l'uomo. Certamente non lo è quando viola o non permette di rispettare altri valori tipici dell'uomo più im­portanti ancora della buona salute fisica od anche intellet­tuale. Chi ha diritto (ad es.) di programmare gli uomini del futuro? chi stabilirà i tipi da conservare e quelli da elimi­nare? con quale autorità? che ne sarà della libertà e della dignità morale dell'uomo

proprio nell'atto più grande della sua esistenza, quello di collaborare a trasmettere la vita?

 

Interrogativi inquietanti

Questi gli interrogativi in­quietanti che rimangono in tutta la loro drammatica gra­vità. L'estate '78 è stata occu­pata in gran parte dal felice parto inglese da cui nacque Louise Brown, la bimba con­cepita in laboratorio e svilup­patasi nel grembo materno: la stampa mondiale vi ha riser­vato uno spazio e un interesse eccezionali. Proprio pochi giorni prima della sua elezio­ne a Papa, il card. Luciani eb­be modo di commentare l'av­venimento. «Primo, condivi­do solo in parte l'entusiasmo di chi plaude al progresso della scienza e della tecnica dopo la nascita della bambina inglese. Non ogni progresso giova all'uomo. Le armi ABC (atomiche, batteriologiche, chimiche) sono state giudica­te un progresso, ma anche un disastro per l'umanità. La possibilità di avere figli "in vi­tro" - se non disastri - pone almeno dei grossi rischi. Per ora non è dato sapere se au­menteranno le malformazio­ni... Secondo, faccio anch'io i più cordiali auguri alla bam­bina. Quanto ai genitori non ho alcun diritto di condan­narli. Soggettivamente se hanno operato con retta in­tenzione ed in buona fede, es­si possono perfino aver meri­to davanti a Dio... Terzo, la fecondazione extra-uterina in vitro è lecita? Dio ha legato la trasmissione della vita alla sessualità coniugale. La fe­condazione artificiale è lecita quando l'intervento del medi­co facilita o aiuta soltanto il concepimento, continuando in qualche modo un atto ma­trimoniale già compiuto. Al­tro è il caso in cui l'artifizio addirittura esclude o sostitui­sce l'atto matrimoniale. Non trovo motivi validi, nell'epi­sodio della piccola Louise, per scostarmi da questa nor­ma».

Al di là del felice esperi­mento dei coniugi Brown, non sono fugati tutti i rischi (anche gravi) cui si può anda­re incontro con questo affida­mento cieco dell'uomo alla tecnica. Lo spettro delle aberrazioni di Hitler si pro­spetta inevitabilmente all'o­rizzonte. E non sembri so­spetto eccessivo e macabro. La selezione della razza si mostra una subdola tentazio­ne, magari camuffata di falso umanitarismo. Un'operazio­ne del genere può andar bene nel campo animale, non certo per l'uomo che come è frutto dell'amore personale di Dio così deve essere frutto dell'a­more personale di due altre creature, un uomo ed una donna, sia pure aiutati, ma non sostituiti dai sussidi scientifici e medici.

Sulle questioni morali su­scitate dall'esperimentazione sull'uomo di nuovi farmaci o di interventi inediti, breve­mente possiamo dire questo:

- la medicina a favore del­l'uomo ha sempre proceduto attraverso la sperimentazione e il rischio, pena l'impossibi­lità del progresso;

- è ovvio che prima di provare sull'uomo occorre esperire tutte le possibilità sugli animali;

- sull'uomo stesso; quan­do si tratta di tentare la guari­gione personale dell'interes­sato bisogna che ci sia una giusta proporzione tra il ri­schio e la prospettiva del buon esito;

- quando invece si è nel campo della ricerca scien­tifica e solo indirettamente si pensa alla guarigione della persona, occorre ricordare che la persona singola non è un pezzo anonimo del tutto (la società) ma ha una sola di­gnità, unica e inalienabile, per cui non può essere sa­crificato arbitrariamente su­gli altari del progresso scien­tifico;

- è comunque sempre ina­missibile la discriminazione tra persone ai fini della espe­rimentazione in base a criteri estrinseci (posizione sociale, economica, di potere, ecc... l'antico "in corpore vili" è anticristiano e antiumano). Inoltre è inammissibile ogni esperimentazione fatta all'in­saputa dell'interessato o dei suoi responsabili morali. In una parola, dobbiamo ricor­dare che l'uomo non è una "cosa" (interscambiabile!?!), ma un essere carico di insop­primibile dignità, qualsiasi condizione sociale od umana lo veda protagonista. Non c'è chi pesa di più o di meno sul­la bilancia della vita umana.

 

L'uomo sempre padrone di se stesso

Un ultimo capitolo (non in senso assoluto, ma relativa­mente al nostro spazio e ai nostri intenti) è quello che concerne l'uso di alcool e di droghe, in genere di ogni so­stanza capace di influenzare e modificare profondamente la struttura e la condizione psico-fisica dell'uomo. Non ci attardiamo in cifre preoccu­panti e drammatiche che stanno a dimostrare la capil­lare e spaventosa diffusione di stupefacenti soprattutto nel tessuto giovanile di questa nostra corrosa società dei consumi. L'attualità di que­sto fenomeno è di un'eviden­za impressionante. Proprio mentre scriviamo, abbiamo sul tavolo aperta la pagina di cronaca di un quotidiano to­rinese ove si racconta la mor­te di Fabrizio (17 anni) ucciso nell'ambiente dei drogati, tra quella malavita fiorente che smercia eroina e spinelli. Gli studi e le indagini in questo campo "minato" sono nume­rosissimi. In questa sede ci li­mitiamo a richiamare alcuni spunti per una valutazione morale:

- l'uso di sostanze che rientrano in senso largo nel­l'accezione di droga può es­sere richiesto in medicina per il bene dell'uomo ed allora non fa problema;

- l'uso di stupefacenti può essere invece impiegato espli­citamente o implicitamente per evadere dalla realtà e dal­la vita (con le sue esigenze), o per lo meno per creare inde­bita ebbrezza ed euforia e da allora diventa abuso;

- l'abuso in questo ambito va chiaramente condannato poiché comporta o può pro­vocare gravi danni al fisico e ancora di più alla sfera psi­chica dell'uomo. Non è ragio­nevole privarsi volontaria­mente dell'uso della intelli­genza e della volontà per sot­trarsi ai propri discendenti a causa dell'ereditarietà altera­ta. Ancora: c'è la triste possi­bilità di rendersi parzialmen­te o del tutto inabili, gravan­do così la comunità di un pe­so anziché fornire un aiuto;

- resta da risolvere e da af­frontare l'insieme aggrovi­gliato delle cause che porta­no facilmente all'abuso di droga, specialmente nelle fa­sce dei giovani e dei giovanis­simi: cause familiari, sociali, personali che poi si riassumo­no in crisi di valori morali su cui fondare la propria vita;

- un aspetto importante (sempre dal punto di vista morale) è quello della re­sponsabilità che coinvolge la famiglia e la società. C'è tutto un lavoro di recupero e di prevenzione per strappare e difendere i minori dagli spac­ciatori di droga, per curare i malati, per dare risposte au­tentiche al "vuoto di tutto", perché è proprio su questo sfaldarsi di ragioni vitali che la soluzione-droga trova il suo terreno più fertile.

 

 

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