Parrocchia di S. Ambrogio

in Mignanego (GE)

 

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strumenti di riflessione

 

 

 

Introduzione

1° Comandamento  -  2° Comandamento  -  3° Comandamento  -  4° Comandamento

5° Comandamento  -  6°-9° Comandamento/1  -  6°-9° Comandamento/2

7°-10° Comandamento  -  8° Comandamento

 

 

il 6° - 9° Comandamento / 1

Non commettere adulterio / Non desiderare la moglie del tuo prossimo

 

Sesso con chiarezza

 

Il discorso sul sesso, oggi, è di obbligo. Al contrario di ieri (cioè, fina a non molti anni fa), quando se ne parlava sottovoce e con qualche imbarazzo. È un bene o un male questo diverso modo di comportarsi, che non senza il tono trionfalistico del conquistato­re moderno si chiama «fine di un tabù» e inizio di una «civiltà nuo­va», liberante le coscienze ed i costumi sociali dall'incubo di una «inibizione?»

La risposta all'interrogativo potrà venire - speriamo, «chiara» - da quanto, sia pure scheletricamente, si dirà in questa conversa­zione.

 

 

Prendere atto della realtà

Intanto, è doveroso pren­dere atto della realtà che è sotto i nostri occhi. Una realtà, penetrata ormai nel tessuto del vivere sociale e, di riflesso, anche nella mentalità e nel comportamento dei sin­goli, cristiani non esclusi.

L'uso degli stimoli sessuali, egemonizzato dagli strumenti della comunicazione sociale, a loro volta manovrati abil­mente da centrali ideologiche e... commerciali, non ha qua­si più limiti o rèmore: nè da parte dei pubblici poteri, né da parte di molte coscienze individuali.

Il sesso, anche nelle sue espressioni più intime o addi­rittura nelle sue perversioni, inonda le nostre vie, gira not­te e giorno sugli schermi dei cinema e delle televisioni, ostenta le sue «prodezze» nei rotocalchi come nelle video­cassette o nelle «buste por­nografiche», entra indistur­bato nelle case...

 

La fiera del sesso

La «fiera» del sesso. Ché di fiera o mercato, in ultima analisi, trattasi. L'insaziabile fame dell'«avere» ha trovato qui una formidabile fonte di guadagni: sesso «industrializ­zato» e poi messo in com­mercio, con un giro di affari da capogiro!

Ma non basta prendere co­scienza della vastità del feno­meno e di quello che ci sta «dietro». Il credente, istruito dalla parola di Dio e del ma­gistero della Chiesa, non può ignorare che la sessualità, nel suo pieno significato, è un «valore» grande, donato dal Creatore all'uomo e alla don­na: un «valore» ed una forza, che esercitano un'influenza poderosa in tutto l'essere umano.

Il credente sa, inoltre, che a seguito della rottura intro­dotta dal peccato originale questa forza tende a ribellarsi ed ha quindi bisogno d'essere «educata» in armonia con la finalità ricevuta dal Creatore. E sa, infine, che la redenzione di Cristo ha purificato, eleva­to, nobilitato anche la sessua­lità, dando al cristiano la gra­zia per tenere nell'alveo giu­sto i propri impulsi, incana­landoli verso una crescita ar­monica della persona e «sa­crificandoli» in una oblazio­ne superiore per un amore e una fecondità «nuovi».

Quanti cristiani, però, san­no queste cose?

 

 

All'alba della creazione

Partiamo da un'afferma­zione fondamentale: la parola di Dio riconosce alla sessua­lità il valore di una dimensio­ne costitutiva dell'uomo e della donna; questa dimen­sione «umana» è voluta da Dio stesso, che le affida un ruolo specifico nel Suo piano creativo come in quello re­dentivo.

Possiamo sintetizzare que­sta funzione della sessualità nel piano divino con le parole di Léon-Dufour (Dizionario di teologia biblica, Marietti 1967, col. 321): «Dio, la cui pienezza sovrabbondante è fecondità oltre ogni misura, ha creato Adamo a sua im­magine, ad immagine di quel Figlio unico che esaurisce da solo la fecondità divina ed eterna. Per realizzare questo mistero, l'uomo trasmettendo la vita, comunica nel corso del tempo la propria immagi­ne, sopravvivendo così nelle generazioni» e cooperando a realizzare il disegno di Dio.

La sessualità, in se stessa, è dunque «buona» come ogni aspetto della creazione: «Dio vide quanto aveva fatto, ed ec­co, era cosa molto buona» (Gen 1, 31). Non solo «buo­na», ma «sacra»: e per la sor­gente da cui scaturisce e per gli scopi a cui è destinata. Il peccato dell'uomo, che ag­gredisce questa «bontà» fe­rendola gravemente e turban­do l'armonia del piano divi­no, viene «dopo» e non può comunque cancellare ciò che è intrinseco alla «natura» della sessualità.

Le due narrazioni del Genesi - la prima detta «sacer­dotale» e la seconda «jahvi­sta» - mettono, al centro del­l'atto creativo di Dio, la crea­zione dell'«uomo », cioè della specie umana, che è formata dal maschio e dalla femmina.

Gli esseri compaiono in ge­rarchia, sempre più nobili e perfetti; al vertice, il capola­voro, l'uomo. Esso è plasma­to da Dio con un'azione spe­cialissima, solenne persino nel linguaggio, per sottolinea­re che l'uomo, se da un lato è pur lui figlio della natura nel­la sua corporeità, dall'altro le è immensamente superiore, perché intelligente e libero, immagine vivente del Creato­re.

Ebbene, l'uomo è - come si dice oggi - un essere «ses­suato». Canta la narrazione della Genesi:

«Dio creò l'uomo a sua im­magine;

a immagine di Dio lo creò;

maschio e femmina li creò» (l. 27).

 

 

Il «perché» del sesso

Seguiamo, sia pur breve­mente, le pagine della Gene­si. La sessualità, nell'uomo e nella donna, viene dal Crea­tore come valore che segna l'essere umano, non soltanto da un punto di vista fisiologi­co, ma anche psicologico e spirituale: per cui l'uomo (maschio) e la donna forma­no due tipi dell' «essere uma­no», diversi ed insieme com­plementari. Questa diversità e complementarietà non ri­guarda unicamente l'atto procreativo, ma investe la vi­ta umana nelle sue dimensio­ni affettive, psichiche, spiri­tuali.

Quando Dio dice: «Faccia­mo l'uomo a nostra immagine e .somiglianza», «l'uomo» non significa «il maschio» ma la «specie umana». Cioè, uomo e donna sono «diversi», non «diseguali»: la differenza dei sessi non comporta, nel piano del Creatore, una differenza di condizione o dignità a fa­vore dell'uomo nei confronti della donna; l'uno e l'altra, essendo fatti «a immagine» di Dio, hanno un'uguaglianza essenziale per quanto attiene alla dignità di persone libere, ai diritti e doveri fondamen­tali, alla vocazione trascen­dente. «Dio creò l'uomo a sua immagine... maschio e femmi­na li creò» (Gen 1, 27). Non c'è stacco o differenza. Come non c'è nella «benedizione», che segue immediatamente: «Dio li benedisse e disse loro: 'Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra; soggiogatela e dominate... » (Ivi 1, 28).

La diversità-complemen­tarietà nella eguaglianza es­senziale dell'uomo e della donna è confermata dalla re­dazione «jahvista» del rac­conto biblico. «Dio disse: `Non è bene che l'uomo sia so­lo: gli voglio fare un aiuto che gli sia simile'» (Ivi 2,18). Que­sto «aiuto simile» l'uomo non lo trova negli animali del creato, ma soltanto nella «donna», perché soltanto la donna è «carne dalla sua carne e osso dalle sue ossa» cfr. ivi 2,23): espressione tipica­mente semitica, che sta a de­signare la stessa natura della donna e dell'uomo, ma insie­me la loro differenza sessuale (maschio e femmina), che rende possibile e appetibile l'unione matrimoniale. «Per questo - continua il racconto biblico - l'uomo abbandonerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie, e i due sa­ranno una sola carne» (ivi 2,24).

Nel disegno di Dio - inde­lebilmente «scritto» nella «natura» dell'uomo - la di­versità dei sessi ha il suo «perché» mirabile: uomo e donna son fatti l'uno per l'al­tra e raggiungono lo scopo lo­ro fissato l'uno attraverso l'al­tra, completandosi a vicenda nell'unità della coppia che fonda il matrimonio, dove si costituisce «una sola carne», cioè come un solo essere umano non più divisibile. Da questa unità indissolubile scaturisce, insieme con il re­ciproco «aiuto» nell'amore e nella comunione di vita, la trasmissione della vita stessa: «Siate fecondi e moltiplicatevi» (Gen 1,28).

 

 

La rottura del peccato

li sapiente disegno divino - lo sappiamo per fede e­lo sperimentiamo conforme­mente - non è stato però ri­spettato dall'uomo. Adamo ed Eva, tentati dall'«avversa­rio» della loro felicità, si sono ribellati al comando del Creatore. E così in loro, «per una misteriosa solidarietà,

tutti gli uomini hanno pecca­to ribellandosi a Dio, sicché il peccato ha invaso dolorosa­mente l'umanità, scatenando in essa altre innumerevoli ri­bellioni personali e procuran­dole ogni altra sofferenza e rovina. È il peccato origina­le« (il rinnovamento della cate­chesi, n. 93).

Il racconto biblico, sobria­mente ma incisivamente, mette l'accento sui riflessi drammaticamente gravi di questa disobbedienza dei progenitori al comando del Creatore. Una disobbedienza e ribellione che, ancor prima di essere consumata, ha cor­rotto il cuore dell'uomo; e poiché lo investe nel suo stes­so rapporto con Dio, di cui è 1'«immagine» vivente, la per­versione non potrebbe essere più radicale. Di fatto, Adamo ed Eva, che fino allora aveva­no goduto dell'amicizia e fa­miliarità con Dio (Gen 2,25), ora che egli « torna nel giardi­no alla brezza del giorno», «si nascondono dal Signore Dio, in mezzo agli alberi del giardino » (ivi 3,8).

Rottura con Dio e rottura tra di loro. Commesso il pec­cato, Adamo accusa Eva mettendo in crisi l'unione d'amore con la donna che Dio gli aveva dato come aiu­to (ivi 2, 18), «carne dalla sua carne e osso dalle sue ossa» (2, 23). li castigo divino sancisce questa rottura: « Verso tuo marito sarà il tuo istinto, ma egli ti dominerà» (3, 16). La relazione tra uomo e donna, che avrebbe dovuto restare perfettamente eguale pur nel­la diversità dei sessi, il pecca­to l'ha snaturata: la donna cadrà sotto il «dominio» del maschio.

 

La triste eredità

Ogni uomo e donna, dopo la prima colpa, viene al mon­do con questa triste «ere­dità». La Rivelazione le dà un nome preciso: «concupi­scenza» (cfr. 2 Pt 1,4; 1 Gv 2,16).

Il peccato originale, cioè, rompendo l'armonia del Creatore ha lasciato dentro l'uomo come un potere ma­lefico, una tendenza o incli­nazione al male, che perpe­tua e sviluppa il disordine del primo peccato. San Paolo dirà: «Io so infatti che in me, cioè nella mia carne, non abita il bene; c'è in me il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo; infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio... Sono uno sventurato! Chi mi libererà da questo corpo votato alla mor­te?» (Rom 7,18 ss.).

Questo conflitto che lacera l'uomo, quasi sdoppiandolo in due realtà che si combatto­no, non si limita certo alla sessualità. Ma, scatenando il disordine nell'uomo, investe anche questa sua dimensione. E con quel fascino quasi vio­lento, che è tutto proprio del­la potenza dell'istinto sessua­le.

È vero, il «disordine» mo­rale, non è nell'istinto carna­le: il bene e il male sono nel «cuore», vale a dire nella li­bera volontà. Così uno può essere, anzi deve essere, «spi­rituale» nell'uso del corpo servendosene secondo il provvidenziale disegno del Creatore e, dopo la redenzio­ne di Cristo, trasformando il corpo in «strumento di giusti­zia per Dio» (Rom 6,13).

Tuttavia, noi formiamo una «unità vivente» (corpo e spirito): e come l'uomo spi­rituale» (interiore) può «spi­ritualizzare» l'uso del sesso, anche l'«uomo carnale» (do­minato dalla concupiscenza) può influire, eccome!, sul­l'«uomo spirituale» trasci­nandolo nel disordine e nel peccato.

Oggi, anche come reazione a un'etica forse eccessiva­mente severa nei confronti della «carne», ci si abbando­na a discorsi riguardanti il sesso che grondano ottimi­smo: fine dei «tabù», delle «inibizioni» ossesive e para­lizzanti, «liberazione» da scrupoli ed incubi..., e tutto o quasi diventa «buono», posi­tivo, costruttivo, lecito! La nostra dura esperienza quoti­diana e lo scatenarsi fuori di noi d'un pansessualismo aberrante non ci dicono nul­la?

 

 

Realismo ed equilibrio cristiano

Su questo punto - bisogna dirlo senza mezzi termini - c'è da fare una correzione di rotta, urgente e coraggiosa. Si, il mondo va in direzione opposta. Ma il credente basa il proprio criterio e compor­tamento morale, innanzi tut­to, sulla parola di Dio inse­gnata e vissuta dalla Chiesa.

Ora, partendo dalla realtà del peccato d'origine e dall'a­maro frutto della concupi­scenza che è dentro di noi, la parola di Dio su questo pun­ctum dolens è chiara, forte in­sistente.

Scrive Pietro ai primi cri­stiani che, a seguito della loro «partecipazione alla divina na­tura», essi devono «fuggire la corruzione che è nel mondo a causa della concupiscenza» (2 Pt 1,4). Giacomo incalza: « Ciascuno è attratto dalla pro­pria concupiscenza che lo at­trae e lo seduce; poiché la con­cupiscenza concepisce e genera il peccato, e il peccato, quand'è consumato, produce la morte» (Ge 1, 14-15).

Giovanni, nella sua prima lettera, riprendendo il tema del «mondo» come «luogo» dominato dal principe del male, avverte che «se uno ama il mondo» (con la sua «consupiscenza della carne e la concupiscenza degli oc­chi»), «non c'è in lui l'amore del Padre» (1 Gv 1, 15 ss.). Sulla stessa linea l'apostolo Paolo, quando ad esempio scrive: «Fratelli, noi siamo de­bitori, ma non verso la carne per vivere secondo la carne; poiché, se vivete secondo la car­ne, voi morirete; se invece con l'aiuto dello Spirito voi fate morire le opere del corpo, vi­vrete» (Rom 8, 12-13; cfr. inoltre Gal 5,16 ss.; ecc.).

 

La tentazione

Dunque, la rottura operata dal peccato, anche se «ripa­rata» dalla redenzione del Fi­glio di Dio fatto uomo, si ri­percuote tuttora in noi: la «tentazione» è all'agguato ogni momento, noi possiamo ricadere sotto il dominio del peccato e «piegarci alle sue voglie» (Rom 6,12).

Questa condizione investe tutto l'uomo: non soltanto la carne nel senso stretto, non soltanto la sfera sessuale, ma anche gli appetiti sensibili e quelli intellettuali. Accanto alla «concupiscenza della car­ne e degli occhi», l'apostolo Giovanni infatti pone «la su­perbia della vita» (1 Gv 2, 16): vale a dire, l'orgogliosa confidenza nelle ricchezze e la sua ostentazione, che por­tano al disprezzo del povero.

Quadro desolante e depri­mente? No! La parola di Dio mette il cristiano di fronte al­la sua realtà, personale e col­lettiva, senza ingenui ottimi­smi. Ma, insieme, senza pes­simismi.

Chi legge per intero i docu­menti del magistero del Si­gnore e degli Apostoli ne trae una visione realistica, ma niente affatto sfiduciata, sulla condizione del cristiano. È 1'«uomo nuovo», la «nuova creatura», profondamente li­berato dal male e capace di vincere il male, che opera at­traverso le suggestioni della concupiscenza. La sua «ca­pacità di vittoria», pure insi­diata da tutti i limiti che sono nel battezzato (uomo sempre libero e quindi soggetto al fa­scino dei desideri sregolati, del bisogno di «avere sempre di più», della soddisfazione insaziabile del lusso), questa capacità è legata alla potenza dell'azione del Cristo risorto: cresce o diminuisce, nella mi­sura che il cristiano vive di Lui, in Lui, per Lui, docile agli impulsi del suo Spirito.

I testi biblici, che portano la nostra visione sul versante della luce e del bene, della grazia e dell'amore, della no­stra vittoria sul Maligno, co­stituiscono il dritto splen­dente della medaglia. Sono la ragione della fede incrollabi­le che ci sostiene nella lotta contro una sessualità disordi­nata, sono la segreta forza in­teriore che si sospinge al su­peramento della tentazione carnale, sono il canto della nostra speranza: « Cristo ci ha liberati perché restassimo libe­ri... Voi, infatti, fratelli, siete stati chiamati a libertà» (Gal 5, 1 e 13). La libertà di chi porta un peso, ma lo porta con la grazia e la pace dello Spirito. E «ilfrutto dello Spiri­to è amore, gioia, pace, pazien­za, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé»(ivi 5, 22)

Ecco: alla situazione dram­matica del cristiano sempre sobillato dal «Nemico» fa ri­scontro, nella visione cristia­na, l'esistenza esaltante di chi è mosso e sostenuto dallo Spirito, «che dà vita in Cristo Gesù», liberandoci «dalla leg­ge del peccato e della mor­te»(Rom 8, 2), fino a farci cantare con l'apostolo Paolo: «Se Dio è per noi, chi sarà con­tro di noi... Chi ci separerà dal­l'amore di Cristo?» (ivi 8, 31 e 35).

La rottura dell'armonia - anche dell'armonia sessuale - si ricompone così nell'amo­re: nell'amore di Dio, in Cri­sto Gesù, nostro Signore (ivi 8, 39), perché tutto si attua «in Cristo», il riconciliatore, il cuore e il culmine della sto­ria umana.

In Lui è la nostra «pace», cioè la ricomposizione e la di­latazione del mirabile dise­gno del Creatore. E come un giorno, «da principio», lo spirito di Dio (il «soffio» di Dio) aveva presieduto alla creazione del mondo e in par­ticolare dell'uomo, un altro giorno, quello della Penteco­ste, Dio procede a una nuova creazione, l'«uomo nuovo» rigenerato nel Figlio suo, Cri­sto Gesù (cfr. 2 Cor 5,17).

 

 

«Ma da principio non fu così»

Se vogliamo, perciò ritro­vare la purezza e chiarezza del disegno di Dio, anche in ordine al delicato problema della sessualità, dobbiamo «leggere» le prime pagine della Genesi nella parola e nell'atteggiamento di Cristo. Rispondendo ai farisei che, «per metterlo alla prova», lo interrogano sulla liceità o meno del ripudio della pro­pria moglie, Gesù cita il testo della Genesi (1, 27 e 2, 24) e ne deduce che, se concessio­ni contro l'indissolubilità del matrimonio vi furono da par­te di Mosè, queste dipesero dalla «durezza del cuore» dei giudei, perché «da principio non fu così» (Mt 19, 8).

«Da principio», cioè all'al­ba della creazione, prima che la disobbedienza di Adamo e di Eva venisse a rompere l'ar­monia del piano divino.

Gesù riconduce il discorso alla purezza delle origini, lo ricollega alle intenzioni del Creatore. E seppure il suo di­scorso affronta più diretta­mente l'istituzione del matri­monio indissolubile, com­prende anche il problema della sessualità, intrinseca­mente legata al matrimonio. Come la «durezza del cuore» è intervenuta a scompaginare il piano divino della istituzio­ne matrimoniale introducen­do il «libello del ripudio» (forma di divorzio), così ha contaminato l'iniziale funzio­ne della sessualità, ordinata da Dio all'unità dell'uomo e della donna nell'amore reci­proco per la gioia della fe­condità.

Tornare «al principio» vuol dire riscoprire il senso genuino del sesso, il suo mira­bile inserimento nel piano creativo di Dio, la sua auten­tica grandezza e nobiltà.

II « Verbo della vita » (1 Gv 1, 1), fattosi carne e venuto ad abitare in mezzo a noi (Gv 1, 14), con la sua morte e ri­surrezione ci ha «riconciliati» con Dio: ci ha come ricon­dotti «alprincipio», all'aurora del tempo, donandoci in sé addirittura una partecipazio­ne alla stessa «vita divina» (2 Pt 1,4). È la «nuova creazio­ne» nella grazia del Redento­re. E in essa l'«uomo nuovo» è «ri-creato» tutto intero: nel suo spirito e nel suo corpo.

La sessualità nella conce­zione cristiana è dentro que­sta stupenda «nuova creazio­ne», e rientra, salvata, nella sinfonia del comando divino come libera risposta d'amore: «Crescete e moltiplicatevi!»

 

 

La nuova fecondità in Cristo

La «redenzione» del Figlio di Dio non si esaurisce nella liberazione dell'uomo dalla colpa originale e, quindi, nel­la ricomposizione dell'ordine primo. Nel momento stesso che riconduce la coppia uma­nà all'indissolubilità del vin­colo matrimoniale come era «da principio», annuncia una realtà nuova che capovolge le idee fino allora dominanti ed apre prospettive così ardite che «non tutti potranno capi­re» (Mt 19,11): è l'annuncio del "celibato", una "fecon­dità" diversa, non carnale ma spirituale, per il regno di Dio.

Al tempo di Gesù, e più in genere al tempo dell' Antico Testamento, la fecondità che si esprime nella trasmissione fisica della vita umana era una «benedizione» del cielo, l'infecondità una «maledizio­ne ». Eva, la madre dei viven­ti, al suo primo parto esplode nel canto di gioia: «Ho acqui­stato un uomo dal Signore»! (Gen 4,1).

Il racconto del libro della Genesi è la storia delle gene­razioni dell'uomo. E il Signo­re scandisce solennemente questa storia con le sue bene­dizioni, che promettono una «discendenza numerosa come le stelle del cielo e come la sab­bia che è sul lido del mare» (Gen 22,17). Spinto e confor­tato dalla benedizione divina, l'uomo sente inestinguibile il desiderio di sopravvivere con il proprio nome alla tomba. Cristo non estingue o frena questo desiderio di fecondità, ma vi innesta un senso nuo­vo, che eleva e dilata gli oriz­zonti della paternità-materni­tà fisica. La quale, d'altron­de, non esauriva neppure pri­ma di questo tutto il suo si­gnificato nel dono della vita, giacché la benedizione divina non si trasmetteva solo con il sangue: l'impulso immesso dal Creatore nella sessualità tendeva sì alla sopravvivenza, ma recava in sé anche l'aneli­to a poter vedere un giorno, in un figlio d'uomo, l'immagi­ne perfetta di Dio.

 

Un anelito che si realizza in Gesù

Questo anelito si realizza e si placa in Cristo Gesù, «im­magine del Dio invisibile, gene­rato prima di ogni creatura» (Col 1, 15). Da Lui e in Lui la «fecondità» dilata i suoi spa­zi: diventa anche spirituale e scaturisce da una fonte nuo­va, la verginità della fede, che trova nella Madre di Gesù il modello sublime e come l'an­ticipazione della scelta vergi­nale del Figlio. Gesù infatti, come Giovanni Battista, ri­mane vergine e insieme sposo spirituale della Chiesa, a sua volta vergine, sposa e madre: « Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei» (Ef 5, 25).

La nuova dimensione della fecondità verginale in Cristo, riceve da Lui anche le pro­prie connotazioni essenziali: non è un precetto, ma è un dono o carisma, che presup­pone una chiamata personale di Dio; perciò comprendono il dono soltanto coloro «ai quali è stato concesso» (Mt 19,11); è un carisma dal pro­fondo respiro «escatologico», poiché la scelta vergina­le è fatta «per il regno dei cie­li» (Mt 19,12) ed i cristiani che fanno tale scelta sono un «segno» visibile della voca­zione celeste della Chiesa, un'anticipazione di «quel mi­rabile connubio operato da Dio e che si manifesterà pie­namente nel secolo futuro, per cui la Chiesa ha Cristo come unico suo sposo» (Per­fectae caritatis, 12); è infine una consacrazione integrale al Signore, «che rende libero in maniera speciale il cuore dell'uomo (1 Cor 7,32-35), così da accenderlo sempre più di carità verso Dio e ver­so tutti gli uomini» (PC, 12).

 

 

Visione integrale

Quanto siamo venuti di­cendo, in costante ascolto della parola di Dio, ci ha of­ferto una visione della sessua­lità, non certo completa e ap­profondita ma essenziale.

Da tale visione nella sua globalità, non bisogna mai staccarsi, quando si discorre di questo bruciante problema o se ne sperimentano le dif­ficoltà nella vita quotidiana. La «rottura», infatti, del pec­cato di origine si riflette, spesso drammaticamente, nella «tentazione» di vivise­zionare la sessualità, acco­gliendone alcuni aspetti e tra­scurandone o respingendone altri. Si opera così una lacera­zione nel disegno unitario ed armonico di Dio, con quei corollari esistenziali dissa­cranti o comunque mor­tificanti che ci fanno tanto penare.

La sessualità, lo abbiamo già detto, è sacra perché vo­luta dal Creatore. È dunque in sé «buona». È un valore altamente positivo e meravi­gliosamente costruttivo. Il corpo non è da accettare co­me una gabbia o un destino, sebbene come una risorsa e un dono, che siam chiamati a sviluppare ed onorare in ar­monia con il disegno del Creatore.

Ma c'è un «di più» nella nostra realtà e quindi anche nella sessualità, che è dono mirabile della incarnazione e redenzione del Figlio di Dio. Egli «si è fatto carne», ha as­sunto cioè la nostra umanità tutta intera (tranne il pecca­to) e tutta intera, spirito e corpo, l'ha salvata. La sessua­lità è dentro questa salvezza: purificata, elevata. «O non sa­pete che il vostro corpo è tem­pio dello Spirito Santo che è in voi e che avete ricevuto da Dio, e che non appartenete più a voi stessi? Infatti_ siete stati com­prati a caro prezzo. Glorificate dunque Dio nel vostro carpo!» (1 Cor 6,19-20).

Ma, è proprio questo «di più », che Cristo ci ha donato «a caro prezzo», a proclama­re con la forza del suo sangue un'altra verità, troppo dimen­ticata: la potenza del male, vinto ma continuamente al­l'agguato per ricondurci a schiavitù, è sempre presente ed operante nella nostra vita. Lo è in particolare nella vita sessuale, dove la spinta alla «rottura» è più violenta e suggestiva, anche per l'am­biente sociale che provoca ed esalta l'esplosione «libera» del sesso.

 

 

Accuse contro la visione sessuale cristiana

È diffusa l'idea e ricorrente l'accusa, secondo la quale l'e­tica sessuale cristiana sareb­be tipicamente «puritana»: una posizione morale, cioè che ritiene vi sia sempre qual­cosa di intrinsecamente «im­puro» nell'atto sessuale; di qui una sorta di invincibile diffidenza nei confronti del rapporto sessuale e del «pia­cere» che vi è connesso.

Che qualche ombra di que­sto sospetto vi sia stata nella tradizione del passato, dif­ficilmente lo si può negare. Tuttavia - lo si è visto - essa non trova conforto in una vi­sione integrale della «fecon­dità» e della conseguente morale sessuale. Quando Gesù prende netta posizione contro l'«adulterio», fino a condannare severamente «chiunque guarda una donna per desiderarla» perché «ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore» (Mt 5, 27), la sua condanna non riguarda il «piacere sessuale in sé», ma il «piacere» derivante dalla infedeltà al vincolo di amore con la propria moglie. Non morale «puritana», ma esi­gente e coerente, perché vuo­le il rapporto sessuale nella sua dimensione di autentico rapporto umano, impegnante l'uomo «dentro» perfino nei suoi desideri e sentimenti.

Altra accusa mossa all'eti-ca sessuale cristiana è quella di un rigido «naturalismo». Il riferimento ad una «legge na­turale» o norma morale, iscritta dal Creatore nell'es­sere stesso dell'uomo sessua­to, è oggi contestato o negato da molti. Perché - si sostiene - quello che in passato pote­va apparire rispondente ad una mentalità e ad un costu­me universale, non lo è più ai nostri giorni; la «natura» perciò deve cedere il posto alla «cultura» odierna che vede ed accetta solo un rap­porto anche sessuale soltanto «personale», libero, sponta­neo. Ora, che i rapporti uomo-donna debbano «per­sonalizzarsi», nessuno lo mette in dubbio. Non però al punto, che nascano e si svi­luppino sotto l'impulso arbi­tario dei protagonisti. Tali rapporti sono liberi, ma sem­pre nel rispetto di una linea fondamentale che non può cambiare, appunto perché iscritta nell'essere più pro­fondo della sessualità: in que­sto senso sono in qualche mo­do «donati», prima ancora che «scelti». Il significato della «norma naturale» è, so­stanzialmente, questo e non altro. L'averla rifiutata in no­me della libertà personale ci ha portato al presente lassi­smo e pansessualismo, che è la profanazione dell'amore veramente umano, libero e fecondo.

 

 

Educare la sessualità...

La sessualità non si difende e non si onora, se non ricon­ducendola alla funzione asse­gnatale da Dio all'alba della creazione. Per far questo, oc­corre oggi coraggio. La per­versione dell'eros, o almeno la sua banalizzazione, è un fatto di dominio pubblico, anzi reclamizzato dalla nostra società come «abbattimento dei tabù» e «conquista di ci­viltà».

Urge, perciò tra i giovani e gli adulti un'azione, equili­brata e serena, intesa a «edu­care» la sessualità.

Non è questo il luogo per un discorso motivato sulla «educazione sessuale». Qui si vorrebbe appena sfiorare - quasi a guisa di sintesi con­clusiva - qualche criterio ed orientamento.

 

Un dovere urgente

Innanzi tutto, sembra non si possa dubitare che un'azio­ne educativa in questo delica­to settore della vita umana è un dovere tra i più gravi ed

urgenti. Un dovere che si im­pone, in primo luogo alle fa­miglie e alle comunità cristia­ne, non solo per «prevenire» abusi e deviazioni di caratte­re morale, ma ancor prima per formare le coscienze ad una piena e lucida visione della sessualità in armonia con il disegno di Dio.

Il Concilio Vaticano II scri­ve: «I giovani siano in modo conveniente e tempestivo istruiti, molto meglio se in se­no alla famiglia, sulla dignità dell'amore coniugale, sulla sua funzione e le sue espres­sioni; così che, formati alla scuola della castità, possano in età opportuna passare da un onesto fidanzamento alle nozze» (GS, 49). È un testo sobrio, ma ricco di importan­ti e sapienti indicazioni. Se una sottolineatura vi si può fare è quella di non attendere la vigilia delle nozze, per illu­minare la coscienza dei nu­bendi sulla dignità e la fun­zione della sessualità: in una società come l'odierna, dove il sesso quando non è spregiu­dicata industria è comunque indirizzato su strade opposte a quelle cristiane, la deforma­zione delle coscienze e lo sti­molo a «libere esperienze» cominciano già nella preado­lescenza.

 

Educare è più che informare

È appena il caso di rilevare che una sana «educazione» della sessualità è qualcosa di ben diverso da una informa­zione di tipo fisiologico e ge­nitale, o anche solo stretta­mente morale. Nell'uomo e nella donna la sessualità non può essere ridotta a semplice istinto, legato alla riproduzio­ne della specie e denso di pia­cere erotico. È una funzione più complessa, che ha certo i suoi aspetti biologici impor­tantissimi ma è anche, e so­prattutto, pregnante di conte­nuti affettivi ed emotivi, per cui è legata alla dimensione in una visione integrale più profonda della personalità umana.

L'azione educante, perciò, deve sempre tendere ad una visione integrale della sessua­lità, assai più estesa ed alta del rapporto sessuale in senso stretto, aperto al dono di sé, non egoista e chiusa al pro­prio piacere: distinta, in altre parole, da quella sessualità, «priva di sentimenti psichici, fine a se stessa, che costitui­sce una pseudosessualità, do­ve si hanno solo manifesta­zioni fisiche e rapporti genita­li che, simile a una masturba­zione vicendevole, rappre­sentano la scarica di tensioni neuro-ormonali» (E. Pasini).

 

Governare con fortezza

Non si dovrà tacere che la tensione sessuale, se vuole restare nel suo ordine e rispon­dere alla sua funzione, ha bi­sogno d'essere «governata» con fortezza. Senza un «do­minio», non ansioso ma co­stante e vigile, la sessualità cede alla spinta erotica e l'a­more diventa egoismo, con­sumo privato, fomite di pas­sioni anche aberranti.

Il dominio di sé nella sfera sessuale giustifica, anzi esige, la «continenza»: anche nella vita matrimoniale. È un'esi­genza dell'amore autentico, perché un amore che non sa dominarsi non sa nemmeno donarsi in pienezza.

 

Il pudore

Né in questo cammino pe­dagogico dovrebbe mancare un'attenzione viva al senso del «pudore», sia nel parlare, sia nel guardare, sia soprat­tutto nel comportamento in­timo ed in quello sociale. La cosiddetta «liberalizzazione del sesso» ha infranto, pur­troppo, questo velo ed ha concorso ad abbassate a li­velli paurosi la dignità di così grande valore.

Il «tabù» qui non c'entra. Il sentimento del riserbo, e quindi anche del rispetto per tutto ciò che si riferisce al campo sessuale, è un senti­mento «naturale»: puù esse­re influenzato, e lo è di fatto, dal contesto culturale in cui si vive, ma resta come una sorta di reverenza istintiva a protezione del « mistero » del­la vita. La «purezza», certo, è anzitutto nel cuore.

Ma è anche nel costume del proprio vivere. Perché l'esistenza del cristiano è una realtà nuova e pura, è il «pa­ne azzimo» senza lievito e senza fermento, chiamato perciò ad estirpare dalla pro­pria esistenza ogni fermento di corruzione e di impurità, per essere in sé e di fronte agli altri testimone di purità e di verità (cfr. 1 Cor 5, 6 ss.).

 

La fecondità

Educare la sessualità - e questo criterio è essenziale - significa riconoscerne la «fe­condità», non come nota mar­ginale o scelta arbitraria ma come dimensione intrinseca.

Significa, più in breve, restare fedeli al piano di Dio: nell'u­sare infatti «di questo dono divino distruggendo, anche parzialmente, il suo significa­to e la sua finalità, è contrad­dire alla natura dell'uomo co­me a quello della donna e del loro intimo rapporto, e per­ciò è contraddire anche al piano di Dio e alla sua vo­lontà» (Humanae vitae, 12).

È perciò sempre peccato, oggettivamente grave, sepa­rare nell'uso della sessualità il «significato unitivo» da quel­lo «procreativo». Un princi­pio morale, questo, che vale entro e fuori il matrimonio (contraccezione, onanismo, rapporti prematrimoniali, masturbazione, ecc.).

 

«Ogggettivamente grave», abbiamo detto. Ecco un'altra an­notazione di estrema importanza nel processo educativo del cri­stiano, anche in ordine al campo sessuale.

Nel valutare l'aspetto morale di un gesto, la sua gravità o me­no, si deve sempre distinguere la norma oggettiva (presa in sé) e il suo rapporto con il soggetto che quella norma infrange (cioè la imputabilità o colpevolezza «soggettiva»).

Ora, sul piano educativo i due aspetti vanno chiaramente enu­cleati e distinti. Si può infatti dare il caso - e lo si dà molte volte - che un disordine «oggettivamente» grave diventi «soggettiva­mente» non grave: o per mancanza e insufficienza di cognizione della norma violata, o per le circostanze e l'ambiente che accom­pagnano l'infrazione della norma, o per altre cause.

E - come avverte il documento Persona humana della Congre­gazione per la dottrina della fede - questo criterio di prudenza nel dare un giudizio circa la responsabilità morale del soggetto va te­nuto presente in particolare nelle colpe di ordine sessuale, per le quali, «visto il loro genere e le loro cause, avviene più facilmente che non sia dato un libero consenso», e perciò diminuisca il grado di colpevolezza morale.

 

 

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