Parrocchia di S. Ambrogio

in Mignanego (GE)

 

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strumenti di riflessione

 

 

 

Introduzione

1° Comandamento  -  2° Comandamento  -  3° Comandamento  -  4° Comandamento

5° Comandamento  -  6°-9° Comandamento/1  -  6°-9° Comandamento/2

7°-10° Comandamento  -  8° Comandamento

 

 

il 7° - 10° Comandamento

Non rubare / Non desiderare la casa del tuo prossimo

 

L'uomo e i beni

 

Beni materiali e lavoro, sono tra di loro strettamente connessi. Ambedue inoltre sono in profondo rapporto con la persona che vive nella comunità umana.

È sempre l'uomo al primo posto sia quando lo vediamo intento al lavoro di trasformazione delle cose, di produzione di beni e ser­vizi, sia quando lo vediamo impegnato nell'attività economica, considerata in tutti i suoi elementi.

Il lavoro è un'attività dell'uomo. Anche l'economia è un fatto prodotto dall'uomo al servizio dell'uomo.

Per comodità espositiva distingueremo la materia in due capito­li: l'uomo e i beni; morale e spiritualità profèssionale.

Per beni o cose intendiamo tutte le realtà di ordine materiale, minerale, vegetale e animale che sono inferiori all'uomo. C'è po­sto per la luna e le stelle come per il ferro, i boschi e la selvaggina. Qual è il rapporto tra tutte queste cose e l'uomo?

Nel settimo e decimo comandamento si mette in evidenza in lin­guaggio negativo (non rubare e non desiderare) un complesso di valori positivi che la Sacra Scrittura espone in varie parti. Vedremo successivamente.­

1) La destinazione universale dei beni.

2) Il lavoro.

3) La proprietà privata e pubblica.

 

 

Destinazione universale dei beni

Prima del comandamento di non rubare ai singoli uomi­ni c'è il comandamento di non rubare all'umanità. Dio infatti ha creato il mondo non per un solo uomo ma per tutti gli uomini di tutti i tempi e per il loro sviluppo completo.

Ogni uomo e ogni popolo è destinatario (attraverso il possesso o l'uso) dei beni che sono necessari per la sua vita e per il suo sviluppo. Nessun bene è stato dato solamente ad un uomo o ad un popolo.

Ogni uomo e ogni popolo deve usare dei beni tenendo conto delle esigenze degli al­tri. Ciò vale per le cose picco­le e per le cose grandi; per i campi come per le fabbriche, per i mari come per gli stretti, per il petrolio come per il fer­ro e l'uranio.

Prima ancora di dire se sia utile o lecito che una perso­na, un gruppo o un popolo abbia in proprietà certi beni è necessario affermare che ogni uomo, gruppo e popolo devono considerare i beni materiali come destinati a servire le esigenze di tutti, non escluse naturalmente le proprie esigenze.

Nasce allora il problema di trovare nella storia i modi più adatti per far sì che i beni del­la terra servano ogni uomo e tutti gli uomini di ogni tempo. $ alla luce di questa imposta­zione di fondo che si com­prende meglio il contenuto altamente positivo e innova­tore del comandamento non rubare.

Ruba anche chi usa male delle cose di cui è legittimo proprietario. Ruba, obiettiva­mente, anche chi detiene proprietà eccessive a danno obiettivo della libertà e dello sviluppo degli altri. Ruba chi amministra male o sperpera la ricchezza.

Alla luce di quanto detto è evidente che alla proprietà giuridica dei beni bisogna premettere come valore nor­mativo la consapevolezza morale di essere, sempre e comunque, amministratori dei beni per sé e per gli altri.

È doverosa una ragionevo­le considerazione per quelli che verranno dopo di noi quando si usano le risorse del creato. Inquinamenti e sper­peri sono deplorevoli anche da questo punto di vista.

Nell'uso e nella produzione dei beni bisogna aver presenti tutti gli aspetti della vita del­l'uomo per determinare ciò che è utile o necessario alla sua vita e al suo sviluppo. Questo è da produrre mentre non si deve produrre ciò che danneggia la vita e lo svilup­po dell'uomo.

È una riforma di mentalità che ci viene richiesta per aiu­tare il nostro comportamento morale e per guidare la for­mulazione di norme giuridi­che in costante adeguamento all'evolversi della situazione.

 

Il lavoro

Ne parleremo nel capitolo seguente. Qui basta ricordare che lo stesso Dio ha voluto sia la destinazione universale dei beni sia l'uomo come suo collaboratore nel mettere i beni creati in condizione di rendere un servizio sempre migliore agli uomini.

 

 

La proprietà privata e pubblica

Dopo il lavoro, il mezzo normale per far sì che i beni servano a tutti è la proprietà.

La proprietà è uno stimolo e un premio al lavoro, un contributo alla salvaguardia delle esigenze di dignità, li­bertà e sicurezza, personale e di gruppo, in una società be­ne ordinata.

A riguardo della proprietà privata e pubblica va detto con chiarezza che i suoi con­tenuti, i suoi limiti e le sue funzioni sono dettate dal va­lore primario della destina­zione universale dei beni. La destinazione universale dei beni è diritto primario; la proprietà è solo diritto secon­dario, funzionale al consegui­mento del diritto primario.

Tali affermazioni ci danno il senso di una stabilità socia­le che non è immobilismo a scapito delle esigenze delle persone, di un progresso che non è sovvertimento dei valo­ri perenni della persona.

Facciamo ora qualche os­servazione prima sulla pro­prietà privata e poi su quella pubblica nel contesto della società contemporanea.

 

a) La proprietà privata

La Chiesa ne afferma la ri­spondenza a natura, la legitti­mità morale e giuridica purché possesso e uso dei be­ni siano al servizio della per­sona nel quadro delle esigen­ze di tutte le persone.

La proprietà privata dei beni di consumo e di produ­zione stimola e premia il la­voro cioè riconosce che l'uo­mo imprime qualcosa di se stesso nel prodotto. La pro­prietà privata educa l'uomo a provvedere alle sue necessità, gli dà uno spazio di libertà e di sicurezza, ne aiuta l'affer­mazione personale e assicura consistenza e serenità alla fa­miglia e ai gruppi all'interno di una comunità bene ordina­ta.

Queste considerazioni ge­nerali sono valide ma non si applicano nella stessa misura a tutti i tipi di proprietà. Ba­sta considerare il valore di­verso che ha la casa di abita­zione e un appezzamento no­tevole di terreno da coltivare. La prima dovrebbero averla tutti, il secondo quelli che, tra l'altro, sono in grado di coltivarla.

Più che l'orticello e oltre al podere affittato oggi contano forme nuove di sicurezza (si­curezza relativa, come del re­sto quella di ogni tipo di pro­prietà) che possono venire: dalle assicurazioni sociali (una buona pensione legata al costo della vita in un'econo­mia sana), da valide capacità professionali che garantisco­no lavoro e relativi diritti per l'oggi e per il domani, da par­tecipazioni azionarie di vario tipo.

Ma allora la Chiesa svuota di contenuto il diritto di pro­prietà? La Chiesa prende atto della situazione esistente. Per certi beni afferma che è utile o necessario che essi siano in proprietà privata (casa, terre­ni, beni di consumo stabile, ecc.) purché si lavori sul serio per consentire a tutti di gode­re in modo ordinato di alcune di queste proprietà.

Ciò facendo la Chiesa non difende lo status quo ma la persona nel concreto svilup­parsi della storia.

Qualche parola in più me­rita la proprietà privata dei beni strumentali o mezzi di produzione. La Chiesa ne ammette la liceità e la con­formità a natura; lascia ai competenti stabilire la quan­tità e il modo di attuazione storica di tale diritto; mette in guardia dal socialismo col­lettivista che di fatto genera tirannide politica e dal liberi­smo economicista che genera ingiustizie e sfruttamento.

Tra questi due estremi c'è posto per infinite soluzioni, adatte ai vari tempi e ai vari luoghi, purché guidate dai va­lori della persona inserita nel­la comunità e attuate con la dovuta competenza.

 

b) La proprietà pubblica

Nessuno ha mai negato o contestato la proprietà pub­blica di suoli o edifici o altre cose necessarie allo Stato per l'esercizio delle sue funzioni classiche.

Fa problema invece la pro­prietà dei mezzi o strumenti di produzione da parte dello Stato. Questo problema non è da confondere con quello dell'intervento dello Stato in economia.

È pacifico che debba esi­stere la proprietà privata an­che dei mezzi di produzione ma con questo non se ne spe­cifica né la quantità né le mo­dalità.

Altrettanto pacifico è che lo Stato debba intervenire se­riamente per creare condizio­ni adatte all'esercizio ordina­to dei diritti e all'assolvimen­to serio dei doveri da parte dei cittadini e dei gruppi di cittadini.

Il primo compito dello Sta­to non è quello di fare quel che possono fare bene i citta­dini e i loro gruppi. Il primo compito dello Stato consiste nel fissare, con la partecipa­zione dei cittadini, le regole generali secondo le quali si rende possibile e più facile sviluppare la responsabile ini­ziativa delle persone e dei gruppi.

L'ordinamento delle atti­vità economiche da parte del­lo Stato, oggi, è diventato più penetrante a causa della complessità, vastità e interdi­pendenza dei problemi eco­nomici moderni a livello na­zionale e mondiale.

Di fatto oggi l'intervento dello Stato si pone in termini di piano cioè di programma­zione dell'attività economica nel quadro generale della vita del Paese.

Una programmazione se­ria, che deve saper raggiun­gere i suoi obiettivi.

Una programmazione de­mocratica, che coinvolge tut­te le forze sia nella elabora­zione del programma sia nel­la sua realizzazione; rispet­tando la natura e le caratteri­stiche delle iniziative, pur coordinandole alle finalità generali del piano. Fin qui non c'è ancora ombra di pro­prietà pubblica dei mezzi di produzione. Questo proble­ma nasce quando una deter­minata attività economica è così importante ai fini del be­ne comune che non basta il compito normale diretto di coordinamento delle attività economiche ma si rende indi­spensabile che quella deter­minata attività diventi pro­prietà e gestione diretta dello Stato.

Certe attività o servizi (fer­rovie, energia elettrica) se fossero lasciate in mano a pri­vati darebbero a questi un prepotere a danno dell'inte­resse generale dei cittadini.

Naturalmente, accertata l'esigenza che una determina­ta attività economica sia svol­ta direttamente dallo Stato, nasce il problema di vedere se lo Stato è capace, se ha le persone competenti, se è più utile una forma mista di ge­stione.

Molte volte la via del pub­blico è la via dell'inefficienza. Occorre limitare al minimo necessario la gestione diretta dello Stato. Inoltre tali ge­stioni dovrebbero essere fatte in forma esemplare.

Né entusiasmo aprioristico né opposizione preconcetta verso la proprietà e gestione pubblica ma conoscenza del­l'uomo reale, della situazione concreta e delle esigenze e possibilità della comunità. Così, volta per volta, si pren­dono le decisioni necessarie, garantendo al tempo stesso efficienza e partecipazione democratica.

Il comandamento del non rubare si esercita oggi in que­sto contesto di economia po­litica. Inefficienza e sperpero, incompetenza e corruzione sono veri furti, e d'alto livel­lo!

Dentro il discorso che ab­biamo fatto sono affiorati sempre i rapporti del tema proprietà con la persona e la comunità, con il concetto di ordine dinamico che spinge avanti persone e famiglia umana, con le esigenze di sfruttamento, competente, onesto e finalizzato allo svi­luppo completo degli uomini, di tutte le risorse e i beni esi­stenti.

Non è quindi un finale a ef­fetto ricordare quattro esi­genze di fondo per il nostro impegno di cristiani nella vita economica.

1) Rinnovare la nostra mentalità nella fedeltà ai va­lori perenni e vivendo il con­creto della storia.

2) Essere sempre disponi­bili a verifiche personali e co­munitarie per controllare se l'ordinamento giuridico dei beni serve veramente lo svi­luppo spirituale, morale e giuridico delle persone.

3) Sottoporsi alla fatica di una severa preparazione per avere la competenza teorica e pratica necessaria. Cosi si fanno camminare gli ideali su sentieri praticabili.

4) Siccome è facilmente prevedibile che, nonostante l'impegno serio di tutti, ci sa­ranno sempre persone biso­gnose di assistenza, mantene­re il cuore aperto e le struttu­re necessarie per gli interven­ti immediati.

 

 

Morale e spiritualità professionale

Nel rapporto che l'uomo instaura con la realtà che viene lavo­rando si può vedere come il non rubare e il non desiderare la roba d'altri diventa impegno morale e spirituale.

In ognuno di noi ci sono atteggiamenti che sembrano contraddi­tori: non sognamo la fatica del lavoro e, almeno qualche volta, speriamo vincite al totocalcio e al lotto ma nello stesso tempo te­miamo di restare senza lavoro.

I due atteggiamenti non sono contradditori. È logico lavorare per campare, ma senza compromettere la salute.

È normale fare qualche co­sa per non morire di noia, ma anche senza prenderci un in­farto per troppe preoccupa­zioni.

È giustissimo desiderare di sentirci utili per non avere la sensazione di trovarci nel­l'anticamera del cimitero, ma senza correre rischi di infor­tuni mortali.

Nel lavoro noi desideriamo sviluppare la nostra persona­lità, ma senza trascurare altri elementi extra lavorativi, ne­cessari per evitare ogni forma di alienazione e per sviluppa­re tutta la nostra personalità.

È così che il lavoro ci appa­re come una delle realtà della vita, anche se non l'unica; una realtà, però determinan­te e ricca di contenuti per la vita umana.

Questi contenuti possono essere di natura economica, sindacale, politica, tecnico­produttiva, igienica, infortu­nistica, ecc. ma anche di na­tura teologica, cioè dogmati­ca morale e spirituale.

Toccherò il tema della po­livalenza o del contenuto plu­rimo del lavoro umano, par­tendo dalla teologia (il lavoro nel piano di Dio) e facciamo vedere le conseguenze sulla vita concreta, sulla condizio­ne storica del lavoro. Dalle idee di fondo germina l'azio­ne efficace nella storia.

 

 

Il lavoro: da necessità biologica a dovere morale e atto d'amore

 

a) Necessità biologica

La spiritualità umana deve avere i piedi per terra. Occor­re cominciare con il ricono­scere umilmente questa con­dizione dell'esistenza umana: per campare si deve lavorare. Il lavoro è una necessità biologica per la stragrande maggioranza dell'umanità.

Possono esimersi da questa legge solamente quelli che non possono lavorare e che ricavano il diritto ai mezzi ne­cessari per vivere dal superio­re diritto di tutti alla vita.

Chi ha abbondanza di mez­zi, se può sottrarsi a certi la­vori, non può dispensarsi dal lavoro, dal compiere cioè at­tività utili per sé e per gli al­tri. Qui però il discorso passa dall'affermazione della ne­cessità biologica all'afferma­zione del dovere morale.

Ma vediamo qualche con­seguenza sociale della prima affermazione.

Se per campare è necessa­rio lavorare, deve essere un fatto normale che tutti abbia­mo un lavoro (pur senza pos­sedere la tessera di un parti­to) e che il lavoro procuri quanto occorre per una vita decorosa a sé e ai propri cari; e in una località che consenta una vita familiare adeguata.

Prima di pensare ai livelli più alti, è necessario pensare ai livelli più bassi. Se di soli­darietà è doveroso parlare, lo è soprattutto in questa dire­zione. Per questo il cristiano non può accettare eccessive differenze salariali. Certe sperequazioni vanno elimina­te.

È un conto riconoscere la maggior responsabilità e qua­lificazione, e ciò è doveroso e necessario; ed è un conto creare situazioni di privilegio, privando altri del necessario.

Ermanno Gorrieri ha scrit­to un libro dal titolo: La giun­gla retributiva, dove al classi­co tema della contrattazione con gli imprenditori per definire il salario, si aggiunge il tema delle gravi sperequa­zioni esistenti fra i lavoratori dipendenti.

 

b) Dovere morale

Il dovere morale del lavoro può essere avvertito dalla co­scienza in rapporto alle esi­genze di sviluppo personale e in rapporto alle esigenze di vita e di progresso della co­munità.

Il tutto può essere percepi­to come risposta ad un co­mando di Dio che ha affidato all'uomo la terra perché la la­vori, sviluppando le proprie capacità e rendendo servizio agli altri.

 

c) Atto d'amore

Il lavoro diventa un fatto umano nel senso pieno della parola, se viene vissuto come atto d'amore.

Amore alla propria fami­glia, amore alla comunità, amore a Dio in unione al qua­le si opera per il bene della famiglia e della società.

Soprattutto a questo livello il lavoro diventa gioia: gioia di donarsi agli altri ed a Dio, accettando anche i sacrifici che la donazione comporta.

 

 

Il cammino del mondo nel piano della creazione

 

a) li lavoro trasforma il mondo materiale

È un dato elementare del­la nostra esperienza. L'uomo ha bisogno di tante cose che non esistono immediatamen­te pronte all'uso, come in un grande supermercato dove si trova tutto.

È necessario che le cose siano lavorate per essere rese immediatamente utili alle esi­genze umane.

In ogni lavoro è insita una logica che deve essere sem­pre rispettata; la logica è la necessità dell'efficacia.

Il lavoro detesta l'ineffica­cia e l'inutilità. Se faccio scarpe, la logica vuole che faccia scarpe buone, in grado di rendere un effettivo servi­zio all'acquirente. Così fa­cendo è naturale che io pro­vi un'intima soddisfazione quando vedo crescere il lavo­ro nelle mani e lo contemplo finito.

Se faccio il cuoco, la logica vuole che io prepari piatti sa­ni e buoni, e che provi un'in­tima gioia nel vedere i com­mensali contenti.

L'esigenza di lavorare be­ne, realizzando efficacemen­te l'oggetto proprio del lavo­ro, fa parte della natura del lavoro ed è un'esigenza della dignità della persona.

Se sono in conflitto con il mio imprenditore, non mi è lecito costruire macchine di­fettose per fargli un dispetto; in realtà il dispetto lo faccio alla mia dignità personale e danneggio il povero consu­matore che verrà a trovarsi nei guai per colpa mia.

Tutti hanno il dovere di fa­re bene il loro lavoro. Natu­ralmente hanno anche il do­vere di difendere efficace­mente il loro lavoro ben fat­to.

Né imprenditori, né diri­genti o lavoratori hanno il di­ritto di difendere il non lavo­ro o il lavoro mal fatto.

 

b) Nel piano della creazione

Il credente, riflettendo sul significato del suo lavoro che trasforma le cose, rendendole utili per la soddisfazione delle crescenti esigenze dell'uma­nità, avverte di essere inserito in un piano più grande di lui, il piano di Dio, creatore e provvidente, che lo invita a diventare suo collaboratore.

Dio ha creato tutto, preve­dendo l'intervento, intelli­gente e libero, dell'uomo, per portare le cose alla loro per­fezione e quindi ad un mag­gior servizio all'umanità. Le realtà terrene, perfezionate dall'uomo, rendono lode a Dio (laus obiectiva) e l'uomo ne raccoglie coscientemente la lode offrendola al Creatore (laus subiectiva).

Il cristiano sa che il cammi­no delle realtà materiali sulla terra raggiunge il suo vertice nell'Eucaristia dove il pane e il vino, frutto della potenza creatrice di Dio e del lavoro umano, diventano il corpo e il sangue di Cristo. 11 cristia­no sa anche che dopo la fine dei tempi, il mondo materia­le, lavorato dall'uomo, sarà trasformato da Dio in degno ambiente per la vita dei corpi gloriosi.

 

c) Collaborazione con il Padre

Il cristiano inoltre sa di es­sere collaboratore di un Pa­dre che ha donato il mondo materiale a tutti perché fosse conosciuto e messo al servi­zio di tutti con la collabora­zione responsabile di tutti.

 

 

Lavoro e perfezionamento dell'uomo

L'uomo s'accorge che, mentre trasforma le cose, tra­sforma se stesso. L'uomo, la­vorando, si lavora.

 

a) Sviluppo personale

Con il lavoro l'uomo svi­luppa la sua intelligenza, la sua volontà, le capacità orga­nizzative, i rapporti con gli al­tri.

Se questo è vero, egli dovrà scegliere, imparare e fare quel lavoro, che meglio di al­tri, gli consente il suo svilup­po personale e il servizio agli altri. Lo stipendio non può essere l'unico criterio di scel­ta.

Se il lavoro è mezzo di per­fezionamento, l'ambiente e le modalità di esecuzione del la­voro non dovranno rovinare né la salute fisica né la vita spirituale (igiene fisica e mo­rale).

Se il lavoro è mezzo di per­fezionamento, occorrerà fa­vorire un'organizzazione tec­nico-produttiva che consenta e favorisca effettivamente lo sviluppo dell'intelligenza e l'assunzione di responsabi­lità.

Spingere verso nuove for­me di partecipazione consa­pevole e responsabile è un preciso dovere di tutti.

Il lavoro, rivolto alla trasformazione delle realtà ma­teriali, non è però il migliore mezzo di perfezionamento a disposizione dell'uomo.

giusto quindi e doveroso tendere alla riduzione della fatica e del tempo che gli si dedica per poter attendere ad attività più nobilitanti.

Il cosiddetto tempo libero non è da concepirsi come tempo vuoto o come spazio di tempo destinato soltanto a recuperare le energie fisiche da spendere di nuovo nel la­voro.

Il sempre maggior tempo libero è un tempo da impe­gnare nella vita familiare, re­ligiosa, culturale e sociale ol­tre al necessario giusto ripo­so.

 

b) "Mistica del lavoro"

Se io lavoro in unione con Dio, creatore e padre, anche il mio lavoro può diventare un modo per sviluppare pro­gressivamente l'unione con Dio e con i fratelli.

Ma affinché questo sia reso praticamente possibile, cioè affinché il lavoro diventi pre­ghiera, occorrono tempi di contemplazione e di collo­quio diretto con il Padre. L'homo faber ha bisogno del­l'homo sapiens; soprattutto quando aumenta la pressione alienante del benessere mate­riale.

 

c) Con Cristo redentore

Il lavoro può redimere. Il sacrificio e la fatica hanno in sé un certo valore di purifica­zione, soprattutto se si accet­ta la pena del lavoro come punizione di Dio per il pec­cato.

Una capacità redentiva, nel senso teologico proprio della parola, il lavoro umano l'acquista quando viene svol­to in unione a Cristo reden­tore.

Motivo, questo, ulteriore e altissimo per stimare il lavoro e per vivere il sacrificio delle nostre attività lavorative e so­ciali assieme a Cristo, al fine di cooperare alla nostra sal­vezza e a quella di tutta l'u­manità.

 

 

Il lavoro fonte di civiltà

Abbiamo visto il lavoro co­me necessità biologica, dove­re morale e atto d'amore; successivamente lo abbiamo considerato in rapporto alle cose lavorate e in rapporto al perfezionamento della perso­na che lavora.

Esaminiamolo ora in rap­porto agli altri, in rapporto cioè al servizio sociale ch'es­so svolge e alla civiltà umana che può costruire.

Ogni lavoro viene svolto assieme ad altri e per gli altri. Nel lavoro si saggia la ca­pacità dell'uomo a collabora­re con gli altri e la sua apertu­ra a capire le esigenze della comunità.

Il lavoro è fonte di civiltà non solo perché costruisce case, scuole, chiese, strade, ecc., ma soprattutto perché è collaborazione con gli altri e servizio per gli altri. Nella ci­viltà moderna aumenta la no­stra interdipendenza in tutti i campi.

Il lavoro può essere fonte di civiltà, se l'uomo che lavo­ra si lascia guidare dalla co­scienza della propria insuffi­cienza a realizzare tutto quel­lo che è necessario a sé, ai propri cari e alla società e ac­cetta la legge della collabora­zione come modo efficace per realizzare il bene di tutti.

Ma perché l'uomo non re­sti prigioniero di un mondo che moltiplica la nostra inter­dipendenza reciproca occor­re avere il coraggio di parlare di amore.

Uomini che sono consci della propria insufficienza e accettano la legge della colla­borazione sono simili a una bella città senza sole, o peg­gio, avvolta nella nebbia. Le strade, le case, i negozi, le scuole e le chiese ci sono ma manca qualche cosa.

Il sole dà una nuova di­mensione alla città: così l'a­more dà una nuova dimensio­ne alla nostra interdipenden­za.

Il cristiano trova la forza dell'amore di cui ha bisogno la vita sociale nella realtà del Corpo Mistico di Cristo, del­la comunione con il Padre e con i fratelli, realizzata in Cristo e per mezzo di Cristo.

Amore che realizza come primo passo la giustizia, dan­do a ciascuno il suo; ma che non si limita al freddo adem­pimento dei doveri della giu­stizia e crea rapporti umani completi, rapporti fraterni tra figli dello stesso Padre.

Coscienza dei propri limiti, dovere di una collaborazione rispettosa e fiduciosa, esigen­za di servizio agli altri diven­tano modi concreti con i qua­li si esprime la vita e l'amore dei figli di Dio.

Realizzando sempre me­glio, nella Chiesa, il mistero di comunione, i cristiani pos­sono offrire alla comunità umana esempi stimolanti e impegnarsi con vigore, deci­sione e preparazione a colla­borare per la costruzione di un mondo sempre più giusto perché sempre più fraterno.

 

 

Condizione storica del lavoro e impegno cristiano

Il contenuto teologico del lavoro e le conseguenze so­ciali che porta, esigono un preciso impegno da parte del cristiano per rendere la con­dizione storico-esistenziale del lavoro conforme alla na­tura del lavoro stesso.

La chiave di volta dell'im­pegno cristiano, oltre al con­tenuto teologico del lavoro, è soprattutto la realtà del lavo­ratore quale figlio di Dio.

È la dignità dell'uomo qua­le figlio di Dio che ha dato vi­ta al movimento operaio, cioè a quell'insieme di inizia­tive e organizzazioni create dai lavoratori per superare la condizione di inferiorità nella quale sono stati posti dal ca­pitalismo industriale.

Seguendo la sua linea ispi­ratrice originaria, il movi­mento operaio tende non sol­tanto a risolvere i suoi pro­blemi diretti ma anche quelli generali della società. Non si pone pregiudizialmente come l'unica forza capace di rinno­vare. Se altri hanno avuto questa presunzione hanno sbagliato. Sarà la storia a dire chi è stato più determinante.

Il movimento operaio, po­nendosi come forza al servi­

zio di tutti i valori morali, a vantaggio di tutti i gruppi umani, coopera con tutti co­loro che accettano lo svilup­po completo della persona, lottando contro tutte le alie­nazioni: contro le alienazioni che provengono dalla pro­prietà male intesa e male usa­ta, come contro le alienazioni che provengono dalla super­bia istituzionalizzata nella classe o nel partito unico, fat­ti diventare valore morale og­gettivo invece che servitori dei valori morali.

È la dignità dei figli di Dio che ci spinge a volere il supe­ramento della fragmentazio­ne del lavoro, privato dell'e­sercizio di effettiva corre­sponsabilità.

È la dignità di figli di Dio e l'amore al Padre e ai fratelli che ci spingono a ricercare e sperimentare forme sempre migliori di organizzazione e di gestione dell'attività pro­duttiva e della politica economico-sociale; forme ancorate ad un effettivo ser­vizio alla libertà, alla respon­sabilità e allo sviluppo com­pleto degli uomini, senza tra­scurare i contenuti propri dell'economia.

 

 

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