Parrocchia di S. Ambrogio in Mignanego (GE)

 

ç

 

Introduzione alla Liturgia / 3

 

La Liturgia nel tempo

 

Temporalità del rito

È certo che la pubblicazione del nuovo « Ordo Missae » segna una data storica nella vita della Chiesa.

Il Concilio Tridentino aveva avviato un'opera di riforma anche per i riti liturgici; e quest'opera ha toccato il suo culmine con la pubblicazione del Messale di san Pio V (luglio 1570). Da allora, salvo aggiunte periferiche, questo rito è stato trasmesso a noi inalterato, attraverso quattro secoli.

Il Vaticano II iniziava i suoi lavori proprio dalla Costituzione sulla Sacra Liturgia. Il capitolo II di questo primo frutto del lavoro conciliare, dopo aver delineato le grandi linee del Mistero Eucaristico, traccia un piano di riforma del rito. L'obiettivo si articola nei seguenti punti:

a  mettere in luce la natura specifica delle singole parti e la loro mutua connessione;

b favorire una partecipazione più attiva da parte dei fedeli;

c  ricondurre i riti a una forma più semplice, cioè di più immediata percezione;

d sopprimere i duplicati e le aggiunte meno utili;

e ristabilire gli elementi che col tempo sono andati perduti, e possono essere oggi rivalorizzati (SC 50);

f  le Norme generali prospettavano anche la possibilità di introdurre forme nuove, a condizione che « scaturiscano in maniera organica da quelle già esistenti » (SC 23). In particolare si raccomandava il ripristino della « preghiera dei fedeli » (SC 53) ;

g  si raccomandava di preparare con più abbondanza ai fedeli la mensa della Parola di Dio, aprendo più largamente i tesori della Bibbia (SC 51) e si sottolineava l'importanza dell'omelia, delineandone la funzione;

h  si aprivano le porte per una estensione della comunione sotto le due specie e della concelebrazione, disponendo che si redigessero per questo nuove norme rituali.

Era un lavoro ingente, che presupponeva un'accurata indagine a livello storico, dottrinale e pastorale. In realtà il movimento liturgico negli ultimi decenni aveva già posto solide basi per questo lavoro. Basta citare i nomi di Jungmann, Capelle e Righetti per l'indagine sulle fonti; di Botte e Mormann per l'indagine sui testi; di Mohlberg per la loro edizione; di Casel, Herwegen e Vagaggini per la riflessione teologica. C'erano pronti tutti gli strumenti di lavoro; e molti di quelli che li avevano approntati hanno partecipato attivamente al lavoro della riforma.

È noto che la riforma ha proceduto per gradi, con fasi successive di semplificazione e, ad un tempo, di arricchimento. Rivedendo le date di attuazione dei decreti, abbiamo in Italia le seguenti tappe: 7 marzo 1965, si introduce la lingua volgare nella celebrazione; 29 giugno 1967, si procede ad alcune semplificazioni rituali che sembrano imporsi con più urgenza; 24 marzo 1968, si permette la proclamazione ad alta voce della preghiera eucaristica in lingua volgare; 23 febbraio 1969, si introducono tre nuove preci eucaristiche che si affiancano al classico Canone romano, arricchendo la liturgia romana dell'apporto di altre tradizioni liturgiche; 30 novembre 1969, tappa conclusiva del cammino di rinnovamento, che presenta un rito rinnovato nel suo complesso, secondo i voti del Vaticano II.

Questa gradualità si è ispirata a un duplice principio: permettere agli autori della riforma di procedere senza precipitazioni in un lavoro tanto delicato, con serie indagini a livello di studio, e sperimentazioni pratiche a livello pastorale; e permettere al popolo cristiano una più piena assimilazione, mediante una catechesi graduale.

Il rito che abbiamo ora di fronte si presenta nella forma « definitiva », nel senso che porta a compimento l'opera voluta dal Concilio. Lo stesso Consilium creato per questo lavoro è stato sciolto. È chiaro però che il termine « definitivo » ha un senso molto relativo nel secolo xx, col ritmo vertiginoso che ha preso l'evolversi della storia e dei costumi, e a cui la Chiesa, che vive nel tempo, non si può sottrarre. In ogni caso è prevedibile che il rito conoscerà un periodo di relativa stabilità.

E la liturgia ha da essere una cosa viva, per uomini vivi. Il vivente muta periodicamente le sue cellule, permanendo intatto il fondo della sua entità personale. Così nella liturgia il « mistero della fede » non muta; intatto viene pure tramandato il nucleo originario del  rito che è destinato ad esprimerlo, voluto dallo stesso nostro Signore.

È soggetto invece a mutamento tutto quel ricco linguaggio, che non è fatto solo di parole, ma è intessuto di simboli e di gesti rituali, con cui la Chiesa ha arricchito quel nucleo primitivo. Tutta l'opera della riforma è stata polarizzata a questo scopo: togliere ai riti le incrostazioni del tempo, renderli « per quanto possibile » intelligibili, senza troppo complicate spiegazioni: e permettere così una partecipazione piena, attiva, comunitaria, di tutto il Popolo di Dio al suo svolgimento.

Dalla riforma però non ci si può attendere tutto, C'è un limite a questa intelligibilità: esso viene dalla natura della liturgia, che è trascendente: deve infatti esprimere dei « misteri », cioè delle realtà che ci superano da ogni parte. Viene pure dal carattere biblico e tradizionale della sua struttura di fondo.

Se dunque il Consilium si è sforzato da una parte di adattare la liturgia al popolo, ci vorrà dall'altra parte tutto uno sforzo, - catechetico per i pastori, personale per i fedeli - per elevarsi al livello della liturgia.

Per cogliere tutta la ricchezza della nuova Istruzione, non basta enuclearne i temi teologici, e delineare la struttura concreta del rito. Occorre soprattutto cogliere lo spirito da cui il documento è permeato.

 

Ritualismo e autenticità di preghiera

A partire dall'epoca in cui la celebrazione ha cessato in gran parte di essere una cosa vissuta, ha cominciato, ad imperare in ambito liturgico il « ritualismo ». In che cosa consiste? Consiste nel fare dello svolgimento esterno di riti e dell'esatta declamazione dei testi un assoluto, avente valore in sé.

Come segno sacro il rito è invece uno strumento sensibile, orientato verso una duplice realtà (i teologi la chiamano « res » in correlazione a « signum »):

a - far leggere in trasparenza il mistero che vi si celebra e che in esso è reso presente;

b - esprimere un'attitudine religiosa interiore, e insieme stimolarla. Con ciò si associa il corpo ai movimenti intimi dello spirito.

Il ritualismo spinto agli estremi vanifica il rito, staccandolo da ambedue queste finalità: e con ciò lo uccide e lo trasforma in un formalismo. Non si preoccupa che ogni rito abbia un senso, e quando oggettivamente lo ha, non si dà pena di scoprirlo. Ciò che vale ai suoi occhi è l'esatta esecuzione.

Il rito, per essere vero, ha da essere di qualcuno, deve afferrare l'uomo reale, « posto in situazione », come oggi si dice. Diversamente non serve a nulla e a nessuno. Non serve a Dio che non sa che farsene dei nostri sacrifici formalistici, e non serve neppure all'uomo, se non impegna la sua vita e le sue opzioni.

Non sono gli uomini per la liturgia, ma la liturgia è per gli uomini. E poi uomini e liturgia sono per Dio.

Il culto sale a lui passando per il cuore dell'uomo. È quello l'altare ove si consuma il frutto della celebrazione, e ove Dio trova la sua gloria. Non dobbiamo dunque avere nessun rimpianto se è stato eliminato dalla liturgia tutto ciò che c'era di irreale. È questione di verità e di autenticità.

Ancor meno il ritualismo si preoccupa di dare un contenuto di interiorità ai riti. Si crede che una perfetta esecuzione basti ad assicurare infallibilmente la gloria di Dio e la salvezza dell'uomo. Ma fin che il rito rimane qualcosa che si svolge di fuori, continua il culto della sinagoga.

Tutto il passaggio dall'Antico al Nuovo Testamento è un passaggio dall'esterno all'interno. La partecipazione esteriore è solo un segno di quella interiore. Ad ogni gesto compiuto, ad ogni formula pronunziata deve corrispondere un'attitudine interiore di preghiera, cioè di fede e di amore. Diversamente si introduce - secondo una forte espressione di san Tommaso - « una bugia » nel sacramento.

« Si curi l'autenticità di ogni cosa », dice l'Istruzione: non solo evidentemente della suppellettile, eliminando tutto ciò che è finto, ma soprattutto del gesto sacro. È inutile che mi lavi le mani, se non sento il desiderio di interna purificazione. È inutile che beva al calice, se non esprimo con questo gesto la mia totale disponibilità al volere del Padre, se occorre, fino all'immolazione, come ha fatto Cristo. È inutile che si alzino le mani in un gesto di offerta, se non impariamo ad offrire con Cristo la nostra vita in sacrificio spirituale.

Non basta una partecipazione attiva a livello di celebrazione; ci vuole una partecipazione intima e personale, che produca un frutto di grazia nel cuore dell'uomo. È vero infatti che il gesto sacramentale ha una efficacia intrinseca (i teologi dicono che opera ex opere operato) ; ma ciò non significa che operi in modo automatico e meccanico. Senza un complesso di disposizioni che spalancano l'anima al dono divino, l'efficacia interiore del sacramento è frustrata.

 

Oltre il giuridismo, per una liturgia viva

La mentalità corrente in fatto di liturgia era incorsa in un'altra deformazione: il giuridismo. Qui è la legge che assurge a valore assoluto.

Il diritto impone il rispetto della legge: ed è legittimo ed indispensabile, perché tutto rimanga nell'ordine se, una volta osservate le prescrizioni, si raggiungesse automaticamente l'obiettivo.

Di conseguenza, tutto ciò che non è « vincolante », viene tranquillamente ignorato, come privo di interesse e di valore. L'unica domanda che ci si pone è questa: è obbligatorio? Il giuridismo in liturgia si è preoccupato unicamente di attuare tutta la complessa gamma delle prescrizioni, senza vedere nulla al di là di esse.

Molte cose hanno contribuito a creare questa mentalità: non ultima la molteplicità, la fissità. e il carattere meticoloso di norme emanate nel passato.

La Chiesa ha sottolineato la novità della impostazione. Non ci sono più tipi di celebrazione, aventi valore in sé: « Messa solenne » perché ci sono due ministri parati, anche se la chiesa è semideserta; « Messa semplice » anche se in chiesa c'è tutto il paese; « Messa cantata » e « Messa non cantata ». Ora la misura della solennità e del canto è data dalle dimensioni più o meno grandi dell'assemblea e dalle sue possibilità canore, e dalla presenza in essa di ministri qualificati.

Questo adattamento pastorale, superando il fissismo delle antiche rubriche, esigeva uno spazio elastico entro il quale ci si potesse muovere con possibilità di scelta. Questo spazio è stato creato, e ne è stato delineato il fine e le modalità (IG 313): il fine è il bene spirituale dei fedeli; il modo è una ricerca fatta insieme da tutte le parti in causa « di comune accordo »: e si dice che parte in causa sono gli stessi fedeli.

Non siamo più gli esecutori passivi di un rito fissato fin negli ultimi dettagli: entro certi limiti ognuno può intervenire nello stesso momento creativo. In quasi tutti gli elementi del rito c'è una possibilità di scelta, che va fatta con sensibilità pastorale, e con aderenza alla situazione e ai bisogni propri di ogni comunità, per creare una « liturgia viva ».

Sarebbe inevitabile lo scacco della riforma se si lasciassero cadere sistematicamente tutte le possibilità di scelta e tutti gli elementi facoltativi, fissando una volta per tutte un tipo unico di celebrazione, con criteri « minimisti ».

D'altronde non bisogna neppure cadere nell'eccesso opposto, cioè nella sovversione arbitraria di tutte le norme. Osservare le norme, non è giuridismo, ma saggezza e fedeltà: propria ad ogni « dispensatore ».

C'è un limite, che le « legittime varietà » di cui parlò Paolo VI non possono oltrepassare. Infatti la liturgia non è solo espressione dell'autenticità religiosa delle varie frazioni del popolo di Dio. È pure l'espressione della fede immutabile e cattolica di tutta la Chiesa: è « segno di unità ». Non si può abbandonare questo segno privilegiato all'estro dei singoli. La liturgia è per noi, ma non può rassegnarsi ad essere come noi.

 

Il popolo celebrante

In un passato non molto lontano, sembrava che il ministro fosse il soggetto unico della celebrazione. Il popolo veniva sempre menzionato come « oggetto » di una azione del sacerdote. Ora invece viene indicato il popolo di Dio come soggetto della celebrazione, subito dopo il Cristo (IG 1), senza che con questo si oscuri la funzione, essenziale e irrinunciabile del sacerdote.

Inoltre viene indicata un'unica e fondamentale distinzione: Messa col popolo e Messa senza popolo (cioè con un solo celebrante e un solo ministro). Le Messe concelebrate o conventuali rientrano nella prima categoria.

Bisogna saper valutare tutte le conseguenze di questa distinzione, e trarne le conclusioni pratiche. Sono indicate concretamente dal n. 78 dell'Istruzione: « È utile che un lettore, un cantore e almeno un ministro assistano, di solito, il sacerdote celebrante; questa forma negli articoli che seguono sarà denominata "tipica". Però il rito qui descritto prevede la possibilità di usare un numero anche maggiore di ministri ».

Dire che è forma « tipica » è come dire che è la misura stabile da cui partire, per ampliamenti, o per riduzioni nel caso di patente impossibilità. Tutto ciò che si fa in meno, deve porre in allarme: se dipende dal sacerdote, è indice di una scarsa sensibilità teologica e pastorale; se dipende dal fedele che rifiuta di assumere il ruolo attivo che gli compete, è segno che questi non ha ancora scoperto la sua incomparabile dignità di membro di un popolo sacerdotale.

 

Dimensione ecclesiale

La Institutio ci obbliga anzitutto a rivedere il concetto corrente di « preghiera ecclesiale ». In epoca recente, fino al Concilio, era inteso in senso prevalentemente giuridico: ecclesiale perché la Chiesa ha creato in qualche modo questa preghiera, ne ha regolato lo svolgimento, la riconosce come sua e la impone.

Questa visione si era concretizzata nella formulazione di due condizioni precise, poste le quali il Mistero della Liturgia si rende presente:

riti e preghiere

a - legittimamente approvati e

b - compiuti da ministri qualificati che con atto positivo la Chiesa deputa a questa funzione. Viene immediatamente da chiedersi come possano elementi così tipicamente giuridici far scattare la realtà misterica della liturgia. Si tratta di una visuale giuridica che rimane all'epidermide delle cose; il Concilio ci ha aiutato a superarla per entrare nel cuore della Chiesa.

Il punto di partenza dovrà essere dunque una visione più adeguata del Mistero della Chiesa, sulle tracce della Lumen Gentium.

La visione che ne elabora la teologia della controriforma è qualificata dal Lafont come « addizionale »: l'unica Chiesa cattolica è la risultanza dell'unione di tutte le sue parti. Si potrebbe anche chiamare « corporativa »: è vista come l'unione di tutti i battezzati sotto il governo monarchico del papa. La struttura giuridica prende il passo decisamente sulla natura misterica: la nozione di Chiesa universale non lascia spazio per quella di Chiesa locale. L'universalità si fa astratta e l'unità giuridica.

Diceva Suarez, proprio occupandosi dell'orazione pubblica della Chiesa.

« Le chiese particolari possono innalzare preghiere comuni... Tuttavia esse sono tutte parti dell'unica Chiesa che è una, puramente e semplicemente, ed è più cara a Dio che qualunque chiesa particolare; la sua santità infatti è più grande, più sicura e più stabile; ed è per questo che, riunita tutta intera, deve anch'essa pregare Dio, e intercedere per tutti i suoi figli » (SUAREZ, In II°-II",, De virtutibus et statibus religionis).

Ma come è possibile che la Chiesa universale si riunisca tutta intera per un'unica preghiera comune?

La risposta di Suarez è in piena consonanza con le premesse poste che non consentono di concepire una preghiera della Chiesa totale se non per il tramite di una determinazione giuridica ed estrinseca della suprema autorità:

« Ministri e sacerdoti della Chiesa, sono deputati a pregare a nome dell'intera Chiesa: la Chiesa li ha delegati (commisit vices suas) a innalzare preghiere a nome di tutto il Corpo » (ibidem).

Siamo qui alla sorgente del concetto di « deputazione ».

Più vicino a noi, Dom Marmion farà leva sull'analogia dell'ambasciatore che riveste una duplice personalità: quella individuale e quella di inviato della nazione, di cui riveste la dignità e diventa l'interprete. In tale visuale si prega « avendo dietro di sé la Chiesa », quale garante della validità e del valore della preghiera.

L'espressione « in nome della Chiesa » acquista un valore eminentemente giuridico. La stessa nozione di preghiera liturgica si « giuridizza »: gli aggettivi che solitamente la qualificano sono: « pubblica » e « ufficiale ».

Il Vaticano II ha riequilibrato l'ecclesiologia, tornando alla visuale della Bibbia e dei Padri: senza negare nulla del suo aspetto gerarchico ed universale, la visione si apre alla sua natura misterica e alla considerazione della Chiesa locale, spazio vitale dell'agàpe e del culto, in cui la Chiesa universale si realizza, cioè si rende presente.

È una visione « communionale » e non più «addizionale»: l'unità non viene dalla composizione di pezzi, ma dalla presenza di tutta la vita del corpo in ciascuna delle sue parti.

Israele che era Popolo di Dio, ma « secondo la carne », non esisteva intero se non nella totalità dei suoi membri. Non esisteva tutto intero senza tutta l'estensione delle dimensioni storiche e geografiche.

La Chiesa è un Popolo « secondo lo Spirito »: il suo mistero si realizza ovunque si manifesta in una comunione ecclesiale visibile, segno della comunione invisibile con Dio e della salvezza che Egli ci offre. Ciò avviene nella Chiesa locale specialmente nell'assemblea cultuale, massimamente quando si stringe intorno al vescovo, o al pastore che rappresenta il vescovo: allora il mistero della Chiesa « maxime elucet » (IG 20; LG 26; DV 11).

 

[tratto da: LA LITURGIA - M. Magrassi - 1979 Marietti Editori]

 

 

é