Parrocchia di S.
Ambrogio in Mignanego (GE) |
Introduzione
alla Liturgia / 4 |
Celebrazione e
strumenti celebrativi |
L'azione liturgica esige che
la comunità adotti un ritmo comune, che si valorizzino i mezzi espressivi
(canto, declamazione, acclamazioni, attitudini corporali). Occorre in breve
che la preghiera sfoci in una celebrazione. Questo termine non designa solo un
complesso di segni esteriori; indica una realtà completa in cui le qualità
interiori trovano espressione in un ritmo esteriore. Ha detto giustamente il P.
Gélineau: « Senza la fede nel Cristo
risorto, presente nella Chiesa per mezzo del suo Spirito, il nostro Ufficio
non sarebbe che parole umane, arte musicale e vuote cerimonie. All'opposto,
senza espressione corporale e sensibile delle realtà della nostra fede, non
si potrebbe parlare né di Ufficio né di Liturgia ». (J. GÉLINEAU, Celebrare
l'ufficio divino, Torino 1967). La celebrazione è la
risultanza dei due elementi congiunti insieme: è l'espressione visibile delle
realtà invisibili vissute nella fede. Il « segno È evidente che con queste
affermazioni poniamo la celebrazione nell'ordine dei segni. Il segno è una
realtà fondamentale della vita umana a tutti i livelli, ma soprattutto a
livello religioso. L'uomo stesso infatti è un
segno: realtà spirituale (anima) incarnata in una realtà sensibile (corpo).
Lo spirito dà al corpo la sua animazione vitale; il corpo permette all'anima
di esprimersi visibilmente. Non è dunque sorprendente che nella sua vita
l'uomo moltiplichi intorno a sé i segni, per esprimere all'esterno il suo
mondo interiore. Tra di essi emerge la parola,
che è tra i mezzi di comunicazione il più fondamentale. Ora il rapporto tra il mondo
interiore ed i segni che lo rendono visibile all'esterno si pone su una
duplice linea: a quella dell'espressione; b quella dell'efficacia. Secondo la prima linea, l'uomo
« rivela » all'esterno quanto gli palpita nel cuore. « Ri-velare » equivale a
« rimuovere il velo » ; ma nel caso concreto il velo è proprio il segno che
scelgo per esprimermi (parola, gesto o suono): esso avvolge il mio pensiero e
i miei sentimenti in un involucro esterno, perché è impotente a presentarli
con immediatezza, nella loro nudità essenziale. Ad un tempo rivela e nasconde:
al limite potrebbe perfino tradire il contenuto. È un rischio inerente ad
ogni comunicazione: ma chi avesse paura di affrontarlo finirebbe per non
comunicare nulla. Dio non ha esitato a farlo inviando il suo Figlio tra di
noi e facendone un Figlio dell'uomo, supremo rivelatore del Volto del Padre. Per non essere travisato, il
segno richiede da parte di quelli a cui è rivolto, occhi per vedere, e uno
spazio interiore per accoglierlo. È quello che è mancato a molti
contemporanei di Gesù. Ma c'è pure un'esigenza
fondamentale che tocca il segno e colui che lo pone: deve essere traduzione
autentica di un valore interiore. Un segno che è fine a se stesso e non
esprime più nulla è un assurdo, o è fariseismo e vacuo formalismo. Ogni parola ed ogni rito
devono essere diafani e trasparenti, aperti sul Mistero e sull'interiorità
dell'uomo in cui essi rivivono. Non si può sottovalutare questo aspetto «
espressivo » del segno, magari col pretesto di dare il primato ai valori
interiori: con ciò si cade nell'astrattismo, e si scinde ciò che nella vita è
inseparabilmente unito. C'è poi la linea
dell'efficacia. Ogni segno autentico la possiede in una certa misura: cioè
non solo esprime, ma produce una realtà interiore. Stimola dunque e
intensifica la disposizione da cui sgorga. La fede si ravviva mentre la
proclamo, la speranza si fa più totale quando esplode in un grido, l'amore
diventa più intenso quando lo esprimo a gesti o a parole, l'adorazione
diventa più piena quando piego a terra il ginocchio o mi prostro disteso. Tutto questo vale ancor più
per le espressioni collettive. Chi non conosce la forza
contagiosa di una celebrazione in cui gesti, canti e preghiere sono
espressioni autentiche, una vibrazione di fede e di amore che afferra tutta
l'assemblea e ne fonde i sentimenti in un unico grido? È una esperienza
esaltante, in cui la fede di molti giovani oggi ricupera la sua freschezza
evangelica ed il suo dinamismo. Ma per questo occorre che i
momenti oranti della comunità si traducano in una vera celebrazione. Convocare per celebrare Il termine è classico e ricco
di evocazioni. Uno sguardo all'uso dei Padri
e dell'antica Liturgia ci aiuta ad afferrarne la portata. Esso si trova
collegato a tutte le realtà del culto: all'«officium», termine globale che
abbraccia all'inizio tutto il « servizio » liturgico; alla preghiera in generale;
alle divine letture (« celebrandis divinis lectionibus personare ») ; a un
mistero, la Risurrezione ad esempio, attualizzato nell'azione liturgica («
Nos autem resurrectionem Christi mane celebramus »); alla commemorazione dei
martiri (« martyrum passiones et dies anniversaria commemoratione celebramus
») ; soprattutto all'Eucaristia, centro del culto, indicata come « dominicum
» (« dominicum celebrare te credis, quae in dominicum sine sacrificio venis
»), o come « sacrificium » (« hoc sacrificium sine intermissione die ac nocte
celebratis »). Questo uso costante del
termine sta chiaramente a indicare che
per gli antichi non c'è atto liturgico che non debba essere « celebrato ». In concreto che cosa esige una
celebrazione? Anzitutto una convocazione dei fedeli: « in unum cum fratribus
convenire et sacrificia divina cum Dei sacerdote celebrare ». Non c'è
celebrazione senza assemblea. Ci vuole poi la chiara
coscienza di essere inseriti in un avvenimento. È il Mistero che si
attualizza nella preghiera, per trasformare la nostra vita. Questa coscienza crea
immediatamente un clima: un clima di festa. Nel Rotolo di Ravenna, ad
esempio, il termine si riferisce sempre alla celebrazione esterna di una
festa. Nasce il termine « celebritas », che oscilla tra il senso di
celebrazione e quello di festa; o meglio li fonde insieme: « festiva
celebritas ». È chiaro che il tono festivo non può coesistere con la stanca
monotonia di una preghiera che si trascina. La festa è inseparabile dalla
gioia: « casta semper laetitia celebrentur » (Rot. Rav. 33). La Chiesa esulta
nel recare all'altare i suoi doni (« Munera exultantis Ecclesiae », Gel. 1,
52) quando rievoca i divini benefici (« ad beneficia recolenda... tribue
venire gaudentes », Gel. I, 14), quando innalza ardita la sua lode al Signore
della gloria (« laudem tui nominis decantantes », MR, or. pro navig.). È una
gioia che scende dal cielo, perché ogni celebrazione ci associa agli angeli
in una comune esultanza (« socia exultatione concelebrant »). Festa e gioia associate
confluiscono in un'altra attitudine spirituale, espressa col termine
evocativo di « alacrità ». È l'antitesi della routine: è dinamismo interiore
che si traduce spontaneamente in azione. Nel nostro caso si tratta di
azione rituale; i suoi elementi sono ricreati nell'atto stesso che sono
posti, da una tensione pacata ma vigile e costante, che sfida la fatica e
annulla l'abitudine: « alacri semper laetitia celebrare » (Rot. Rav. 25). È
una scintilla che scocca dai cuori, ma investe gesti e parole, li anima, e li
compone in un ritmo. $ difficile allora che chi vi si inserisce non ne sia
afferrato. È un clima contagioso: si
celebra allora « cum omni alacritate mentis et gaudio » (MASSIMO DI TORINO,
Serm. 18; PL 57,569A). Una celebrazione viva e
consapevole vuole certamente far vibrare l'assemblea all'unisono; ma vuole
pure permettere a ciascuno di entrarvi come nella propria preghiera. Ed esige
infine di integrarsi in modo omogeneo con tutta la vita. Diversamente si
risolve in un estetismo sterile. Formule e preghiera I classici dell'antichità non
erano preoccupati d'altro. È celebre il detto benedettino: « Mens nostra
concordet voci nostrae » (Regula Benedicti, c. 19). Ma già prima Agostino
aveva detto: « Hoc versetur in corde quod profertur in ore ». Al movimento
superficiale delle labbra deve accompagnarsi quello profondo dei pensieri,
della volontà e degli affetti: diversamente tutto si riduce a un suono vuoto
di formule. Il dispiegamento dei mezzi
espressivi, la solennità, il numero dei partecipanti contribuiscono a porre
il « segno »: ma il contenuto sarà solo una preghiera fervorosa, intelligente
e attiva; uno slancio di fede, di speranza e d'amore che sgorga dai singoli
cuori e - per la fraternità autentica che li lega - si esprime in un unico
grido, si incanala attraverso quelle formule « divine » che vengono scandite
all'unisono. Cristo assume l'uomo come uno
strumento « Poliarmonico » diceva Clemente di Alessandria: ma le corde che
Egli vuole fare vibrare non sono in primo piano quelle vocali: sono quelle
della mente e del cuore. È opportuno richiamare qui un
principio elementare valido in tutta l'area della pietà cristiana: le formule
non sono preghiera, ma mezzi di preghiera. Di conseguenza ciò che più conta
non è la quantità delle formule, quanto la profondità e l'intensità dei
sentimenti che vi si esprimono. Il Vangelo è indubbiamente su
questa linea, e proprio in reazione a una tendenza dell'epoca a moltiplicare
le formule. In ambiente pagano si attribuiva a ciò una efficacia che
sconfinava nel magico: si voleva « stancare gli dei » (« fatigare deos »).
Gesù ha reagito con fermezza a questa prolissità della preghiera: « Non
moltiplicate le parole come i pagani, i quali pensano di essere esauditi per
la quantità delle loro parole » (Mt 6,7). Una puntualizzazione analoga
Egli deve fare a riguardo dei farisei che « ostentano di fare lunghe
preghiere » (Mc 12,40). Come esprimono bene i termini greci, questo « lungo
pregare » è solo « apparenza » di preghiera; qui è la vanità e il desiderio
di attirare l'altrui considerazione che vanificano la preghiera nel suo cuore
stesso. Ma altrove Gesù applica ai
farisei il versetto di Isaia (29,13): « Questo popolo mi onora con le labbra,
ma il suo cuore è lontano da me » (Mc 7,6). Si tratta di formule che muovono
le labbra, ma non afferrano il cuore. Se il cuore non è rivolto al
Signore, mediante un'autentica conversione, non è capace di preghiera
autentica. Rimane capace di pratiche formalistiche, ma sono un guscio vuoto.
Per questo Gesù raccomanda la preghiera fatta nel segreto: non per sostituire
la preghiera privata a quella comune; e neppure per escludere la
manifestazione in parole dello slancio intimo del cuore; ma per fornire un
mezzo di « verifica » sulle qualità interiori della nostra orazione. Parola di Dio e voce per l'uomo Il materiale biblico e
patristico è messo tra le nostre mani per diventare un mezzo di preghiera.
L'antichità cristiana conosceva il segreto per stabilire un dialogo orante a
partire dalla Parola. Noi moderni, nonostante tutti i progressi scientifici
dell'esegesi, rischiamo di smarrire questo che è l'essenziale. Non sarà inutile dunque
riassumere qui le intuizioni di fede con cui i Padri accostavano la Parola,
perché la lettura si trasformi in divino colloquio. Alla base sta una certa
concezione della Bibbia, che può essere ricondotta a questi principi-base: a - È un LIBRO DIVINO: realtà
trascendente che viene dall'alto, anche se i termini con cui si esprime
appartengono al nostro linguaggio. « Si beve alla fonte della conoscenza
divina », dice Ruperto di Deutz. E un Cisterciense parla delle « lettere
venute dal cielo ». La pagina biblica va collocata ben in alto, al di sopra
dei poveri frutti dell'ingegno umano. b - È un LIBRO VIVENTE, perché
animato dallo Spi. rito di Cristo. Seguendo un notevole filone patristico
bisognerebbe al riguardo riscoprire l'attualità permanente dell'« ispirazione
». Concezioni più recenti lo vedevano come un fatto che appartiene al
passato: un influsso divino sugli agiografi che si è concluso quando il
messaggio fu consegnato in iscritto, dando origine al testo « ispirato » (qui
il termine è un participio passato). Questo influsso invece permane
sempre attuale: lo strumento di questa azione divina non è più l'agiografo,
ma la Parola stessa che ci è posta tra le mani, e mediante la quale lo
Spirito ci investe: « Spiritus tangit animum legentis », ha scritto a
proposito Gregorio Magno. Non posso dunque mettermi
davanti a quella Parola in attitudine di spettatore. Non è solo l'incontro
con una « scrittura »: è l'incontro col Dio vivente che mi interpella. Vuole
da me, ora, una risposta. Se propone una verità, vuole
un'adesione di fede. Se presenta un appello morale, impegna la mia vita. c - È uri MISTERO
INESAURIBILE. Ha strappato dal cuore di Agostino questo grido: « Mira
profunditas eloquiorum tuorum... mira profunditas, Deus meus, mira
profunditas ». Origene aveva l'impressione di imbarcarsi su una fragile
imbarcazione in un oceano sconfinato. Nell'antichità si parlava volentieri di
un « peso immenso di misteri »: le sue dimensioni sono commisurate su quelle
del Mistero di Cristo che vi si esprime. Una lettura così assidua e
costante genera la familiarità. Ma non è questo il risultato di una prima
lettura. Non ci si può avventurare nella Bibbia da turisti. Bisogna diventare
gli abitanti del paese: tornare sui propri passi, sapersi fermare in
contemplazione davanti ad ogni angolo per esplorarlo a fondo. Allora questo
paese ci rivela l'incanto dei suoi recessi. È quel che capita anche per
certe musiche classiche: se ne colgono le segrete armonie, se ne scopre il
linguaggio, se ne captano i motivi dominanti solo dopo un ripetuto ascolto. La familiarità produce poi la
perfetta sintonia. La Parola di Dio plasma le pieghe più profonde dell'anima,
entra a far parte del nostro mondo interiore. Se ne fa l'esperienza. E il suo
eterno messaggio, filtrato così attraverso la nostra sensibilità religiosa,
acquista un sapore di attualità. d - È PAROLA VIVA SOLO NELLA
CHIESA. Nel momento in cui riscopriamo il ruolo insostituibile della Parola,
dobbiamo vegliare e non ripetere l'errore che ha minato alle basi il
movimento religioso della Riforma. Essa ha fatto appello alla Bibbia,
sbarazzandosi di tutto ciò che è necessario per conservarla viva. L'organo che ci restituisce
vivente la Parola è la Chiesa. Essa è dotata di una specie di « memoria
vivente », che là mantiene in contatto vitale con le realtà della Scrittura. Si tratta in qualche modo di
un istinto divino; l'ha detto Bernardo in un testo citato dalla LG (n. 164):
« Ha con sé l'afflato e lo spirito del suo Sposo e Dio ». C'è una specie di istinto
ecclesiale che percepisce per continuità vitale il senso autentico della
Parola. Già l'ebraismo aveva un senso molto vivo di questa interpretazione
dei testi a mezzo della tradizione. Il « Talmud » e la « Mischna » ne sono
l'espressione: non è esegesi scientifica, ma, per una sorta di affinità, è
più penetrante di qualsiasi tecnica filologica. Sulla stessa linea sono i
Padri: non sanno concepire una bibbia fuori del mistero ecclesiale. Fuori dallo Spirito che vive
nella coscienza attuale della Chiesa, la Bibbia è soltanto lettera che
uccide. Senza la presenza di Cristo, la Parola si riduce a un puro documento
di storia. Ora la Chiesa ha il privilegio di questa presenza, perché si
identifica con Cristo: ne è la continuazione. e - CRISTO LA RIEMPIE DA UN
CAPO ALL'ALTRO. Siamo qui di fronte all'intuizione centrale di tutta
l'antichità che, al seguito di san Paolo, ha visto nell'Antico Testamento una
pedagogia che conduce al Cristo, una storia che trova in lui la sua peripezia
decisiva, una Parola che si condensa in lui diventando persona, una
rivelazione che attinge in lui la sua ricchezza definitiva. Una celebrazione viva Tali possibilità rispondono al
bisogno, oggi molto sentito, di rendere viva ogni celebrazione, di
attualizzare la preghiera per evitare che si sclerotizzi. Siamo diventati
molto esigenti in fatto di autenticità di preghiera: vogliamo che zampilli
fresca dal nostro cuore, che sgorghi quasi dalle nostre concrete situazioni
vitali. In ultima analisi è in gioco
qui il grande problema del rapporto tra preghiera e vita. E bisogna dire che
esso si pone ad un tempo in termini di continuità e di rottura. Il paradosso
è solo il segno di quel carattere « bipolare » che caratterizza ogni realtà
cristiana. a - Continuità anzitutto.
Sarebbe troppo artificiale una preghiera che non fosse profondamente segnata
dalla nostra vicenda quotidiana. Non siamo forse chiamati a fare della vita
una preghiera e della preghiera una vita? Questo spinge istintivamente a
mettere in atto alcuni mezzi, per esempio: una guida che, con richiami sobrii
e intelligenti, inquadri la liturgia nella vita concreta della 'comunità; una libera
inventiva che trovi spazio soprattutto nell'omelia e nelle preghiere di
intercessione; inoltre la possibilità di scegliere gli elementi in funzione
delle vicende del mondo, dei problemi ecclesiali di attualità, delle
esperienze o dei fatti che interpellano la comunità locale. Tutte queste
possibilità sono offerte, e vanno utilizzate con equilibrio, superando un
fissismo rubricistico che appartiene ormai al passato. b - Il problema si pone anche
in termini di rottura. È un incontro col Dio tre volte santo. Bisogna
togliersi i sandali come Mosè per entrare in questa area del divino. Ne nasce
il « senso del sacro » che segna tutto della sua impronta: non si tratta di
cadere in un ieratismo fuori del tempo ed estraneo alla vita. Si tratta solo di comprendere
che « Dio è Dio e l'uomo è uomo » per riprendere una sublime tautologia di K.
Barth. Che le realtà di fede esigono di incarnarsi nella vita, ma non nascono
dalla vita, vengono dall'alto. Che il Mistero è una realtà immensamente più
grande di noi, che ci supera da ogni parte. Che i limiti di spazio e di tempo
(il nostro « qui » e il nostro « ora ») non chiudono nei loro limiti la
realtà celebrata: essa si collega ai due poli estremi del tempo, la innocenza
delle origini e la gloria finale, e ripercuote i suoi effetti su tutto il
cosmo; coinvolge tutta la Chiesa, quella di sempre e di dovunque. Si tratta di comprendere che
questo momento di preghiera, se è legato all'avvenimento di oggi, si protende
però verso le realtà ultime: che la fede che lo anima è attesa e
anticipazione della « visione ». Per essere autentica l'attualità liturgica
deve sentirsi polarizzata ad un tempo verso i « magnalia Dei » del passato, e
il ritorno di Cristo che affrettiamo col desiderio. [tratto da: LA LITURGIA - M. Magrassi - 1979 Marietti
Editori] |