Parrocchia di S. Ambrogio in Mignanego (GE)

 

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Introduzione alla Liturgia / 11

 

La Liturgia delle Ore : i mezzi espressivi

 

Poiché la Liturgia delle Ore si situa nell'ordine dei segni, il clima spirituale esige di tradursi all'esterno in elementi sensibili:

§      formule e canti,

§      gesti e attitudini esteriori, silenzio.

Ne presentiamo una breve analisi pratica, a servizio cioè di una messa in opera concreta.

 

FORMULE

È formula tutto ciò che si esprime a parole. Ma la parola conosce una infinita varietà dei generi espressivi. Quelli ricorrenti nel breviario si possono ricondurre ad alcuni tipi caratteristici:

 

Acclamazioni e invocazioni

Il P. Gélineau preferisce il termine « grido », e lo descrive così:

« È atto umano che esprime in modo immediato e globale una situazione eccezionale o una intensa esperienza, e che, se è collettivo, permette alla comunità di partecipare a questa situazione o a questa esperienza ».

Essi esprimono la gamma più varia dei sentimenti:

- c'è il grido di aiuto con cui comincia l'Ufficio: « O Dio, vieni a salvarmi » ;

- quello di lode con cui si conclude: « Benediciamo il Signore » ;

- quello di gioia che prorompe qua e là nella celebrazione: « Alleluia » ;

- quello di fede che suggella ogni preghiera: « Amen », « Gloria al Padre... » ;

- quello di pentimento che prorompe dal « cuore spezzato »: « Signore, pietà ».

Nonostante questa varietà di contenuto, essi hanno queste comuni caratteristiche: per essere autentici devono avere quell'urgenza patetica che caratterizza ogni intensa esperienza.

Un grido che non sgorga dal cuore ha un suono falso.

È di sua natura breve: non si imbarazza di frasi inutili, perché non vuole trasmettere un messaggio, ma dar sfogo a quella profonda emozione che coglie il cuore umano quando il divino vi irrompe.

Ciò che gli occorre è un avvio sicuro e un ritmo preciso, incisivo, entusiasta, quasi come l'ovazione in uno stadio. L'esperienza collettiva di una comunità in festa non può esprimersi che così.

Questo stile breve e netto suppone il canto: una lettura è troppo esangue, il retto tono manca di movimento. Poche note che mettano all'uniscono le voci e annodino le parole in un solo grido, creando coesione e unanimità nell'assemblea. Tali acclamazioni hanno grande importanza nella celebrazione: ne sono come la molla interiore che la sospinge in avanti, ne ritma lo svolgimento, ne misura la intensità.

 

Proclamazioni

La proclamazione ha carattere kerigmatico: è cioè annuncio, trasmissione di un messaggio. Qui interviene uno solo, che interpella la comunità (è il caso delle letture, brevi o lunghe, e anche delle monizioni fatte dai vari ministri), oppure interpella Dio a nome di tutta la comunità orante (è il caso delle orazioni del presidente o delle intenzioni di preghiera).

La lettura si pone sulla linea della « comunicazione », e ne deve accettare le leggi: esige una dizione chiara e un tono giusto per comunicare con tutti. L'attenzione infatti è polarizzata unicamente al contenuto del messaggio: « Davanti a uno che parla o legge ad alta voce per noi, si sta attenti soprattutto a quello che dice » (come osserva G. Stefani) ; a differenza del canto, in cui si è attenti alla totalità dell'atto (melodia, ritmo, qualità della voce ecc).

Per trovare il tono giusto è indispensabile che il lettore si metta in stato di ricettività: per afferrare il cuore degli altri, quella Parola deve prima passare come una spada attraverso il suo. Solo questa interiorizzazione gli permetterà di trovare il tono e il ritmo voluto dal testo, e di evidenziare spontaneamente le frasi su cui va l'accento del brano.

Questo non deve d'altronde portare all'enfasi drammatica: il lettore non è un attore, ma un ministro: potrà vivificare la parola con il suo « calore » intimo, perché diventi un « lieto annunzio », ma non deve darle il « colore » della sua anima, personalizzandola in modo soggettivo. Si trasmette il messaggio di un Altro, dietro al quale bisogna scomparire. Una lettura dunque impregnata del senso del sacro: un tono grave, insieme sobrio e solenne.

Questo esige il canto? Nella nostra civiltà un messaggio non viene mai trasmesso in forma melodizzata, e neppure in quella forma più vicina alla declamazione detta oggi « cantillazione ». La spontaneità e l'immediatezza della lingua parlata rende per noi artificioso il canto nella proclamazione.

Il responsorio è strettamente correlativo alla lettura: se nella lettura è Dio che parla, nel responsorio è l'assemblea che risponde. Il responsorio assume perciò una funzione importante in rapporto alla lettura: con il suo stile poetico introduce una nota di gioia; proiettando sulla lettura la sua luce, ne aiuta la comprensione; ci guida nell'impegno a trasformare la lettura in preghiera e in contemplazione; inserendo il brano biblico in un contesto più ampio, aiuta a cogliere il suo collegamento con le linee portanti della storia della salvezza; facilita il passaggio tra l'Antico e il Nuovo Testamento (cf. IG 169).

A differenza delle letture, esso è di sua natura cantato: diversamente ne esce soffocato quel poetico che gli è caratteristico.

L'orazione obbedisce sostanzialmente alle stesse leggi della lettura. Non c'è dubbio tuttavia che altro è rivolgersi a un'assemblea in nome di Dio, e altro è rivolgersi a Dio a nome dell'assemblea. Non è più un messaggio da trasmettere, ma una preghiera innalzata a Dio da uno solo, in cui confluisce la supplica di tutti i membri della comunità.

 

Salmodia

I salmi costituiscono la parte più caratteristica e preponderante della liturgia delle Ore. Per una loro retta esecuzione occorre tenere presenti alcuni fatti fondamentali:

a - Il « salterio » è una raccolta di poemi appartenenti a generi letterari diversi: altro è un inno, altro una lamentazione, altro ancora un salmo didattico. Questa varietà deve riflettersi nelle forme di esecuzione.

E' vero che la esecuzione degli ultimi secoli, non lo ha fatto, avendo pianificato tutte le forme dell'Ufficio: ma la nostra migliore conoscenza dei generi letterari, e la maggior sensibilità che abbiamo per l'originalità e l'unità di ognuno, non ci permette oggi di farlo. Un certo pluralismo di forme si impone.

b L'esecuzione offre tre possibilità concrete, tutte collaudate da usi tradizionali:

1 - La recita continua in cui uno solo declama i versetti, mentre l'assemblea si pone in ascolto. Cassiano ci attesta questo uso presso i monaci

d'Egitto. Ha il vantaggio di favorire una attitudine contemplativa, tranquilla e vigilante.

2 - La recita continua collettiva, in cui i due cori si alternano nel modulare i versetti. Ha il vantaggio di essere più attiva e di favorire l'alacrità; ma presenta insieme il pericolo che il susseguirsi incalzante dei versetti soffochi il respiro della preghiera intima. Si impone un ritmo preciso e senza precipitazioni.

Bisognerà inoltre evitare il passaggio immediato da un salmo all'altro. Si sa che i monaci antichi interponevano tra i salmi una lunga pausa di silenzio, che lasciava posto a un'intensa reazione personale e permetteva di acclimatarsi al salmo seguente. Ci sembra urgente ricuperare nella prassi questo ritmo.

3 - La forma responsoriale, in cui l'assemblea risponde con una antifona-ritornello ai versetti, o alle strofe del salmo, modulati dal solista o dalla « schola ». Questo modo combina insieme gli atteggiamenti dei due precedenti, cioè l'ascolto contemplativo e l'intervento attivo, e facilita l'esecuzione soprattutto in celebrazioni con partecipazione popolare. Un'antifona, anche senza libri, è presto imparata. Si può usare ogni volta che la struttura (a strofe) del salmo vi si presta, e purché il « responsurn » sia ben scelto.

c - Un'ultima questione si pone: come sarà eseguito il testo del salmo? Recitato, cantato, o in tono recto? La risposta non è facile. Molto dipende dalle limitate possibilità che la situazione odierna ci offre e dall'assemblea concreta. È possibile però fissare qualche principio orientativo.

Una recita qualunque non soddisfa certamente le esigenze della salmodia. Si tratta di un testo poetico che ha un suo ritmo: basta pensare al parallelismo, indicato felicemente come una « danza dell'intelligenza ». (J.-Y. HAMELINE, Il canto dei salmi, in Celebrare l'Ufficio divino, p. 125). In poesia il tempo e il ritmo fanno parte del senso: « Le parole cioè non hanno senso fuori della durata vissuta è ritmata » (Ibidem).

Salmodiare significa dispiegare in una durata contemplativa il movimento della parola. Il « tono parlato » soddisfa a questa esigenza? Difficilmente quando si tratta di un'assemblea. È difficile recitare insieme senza creare differenze tonali urtanti e distrattive. Per farlo bene occorre un tono comune.

Il recto tono per gruppi non addestrati è di difficile esecuzione: con la lingua volgare appare inoltre artificiale e sembra scolorire la parola.

 

Inni

L'inno costituisce il momento più lirico e più musicale dell'Ufficio. Lirico, perché ammanta il Mistero di poesia, musicale perché in esso la musica non è solo a servizio della parola, ma è essenziale quanto il testo, a cui si unisce per costituire con esso una sola composizione.

Il rapporto tra parole e testo è lo stesso che esiste in ogni canzone. Ne consegue che un inno senza canto è un controsenso: « Se è lode, è lode di Dio, ma se non è canto, non è inno » aveva già detto Agostino.

Nel nuovo breviario è collocato costantemente all'inizio delle Ore: ha lo scopo evidente di creare il clima particolare della celebrazione, di imprimerle un avvio gioioso, facendo leva sul lirismo e sul canto, e di introdurre l'assemblea in una comune preghiera. (IG 42 e 173). E' un momento essenzialmente laudativo: « laus Dei cum cantico ».

È con le orazioni uno dei pochi elementi non biblici della Liturgia delle Ore: rappresenta dunque il momento in cui si può meglio esprimere la reazione dei credenti di oggi al divino annunzio, che è sempre attuale.

L'inno ci dà occasione di richiamare la funzione primordiale del canto in una celebrazione che vuole essere viva. Basterebbe ricordare che in sant'Agostino « cantare » e « lodare » sono costantemente sinonimi, e che l'Ufficio è visto dalla tradizione proprio come « sacrificium laudis ».

 

Il SACRO SILENZIO

Il ritmo della celebrazione non si fonda solo sulle formule, cioè sulla parola. Ha bisogno anche di silenzio. Le stesse parole lo esigono per conservare la loro forza nativa: una parola grande vuole essere fasciata di silenzio. Una celebrazione in cui formule e canti si susseguono ininterrottamente senza respiro, manca di euritmia: l'efficacia stessa degli atti posti ne viene snervata.

Si sa che in arte l'« orror vacui » (l'orrore del vuoto), preoccupato di riempire con disegni tutti gli spazi, è un segno patente di decadenza. L'orrore del silenzio in liturgia, preoccupato di riempire con formule e canti ogni spazio, è sintomatico nella stessa direzione. Tale tendenza ha caratterizzato gli ultimi secoli e va decisamente superata.

Nelle azioni liturgiche « si deve procurare che si osservi a suo tempo anche un sacro silenzio » (SC 30; IG 201): non è un consiglio, è una norma.

Ma per questo occorre comprenderne la funzione, coglierne l'anima, arrivare a gustarlo; diversamente sarà soltanto un vuoto fastidioso. Molto felicemente la Institutio ne indica così lo scopo: « per accogliere più pienamente nel cuore la risonanza della voce dello Spirito Santo, e per congiungere più strettamente la preghiera personale con la Parola di Dio » (IG 202).

Ha dunque un valore attivo; se fosse solo assenza di parole, sarebbe un vuoto: di essere, di amore, di vita; non sarebbe più silenzio. Il vero silenzio è attenzione alla Parola di Dio, ascolto e dialogo interiore. È un orecchio teso al Verbo: scava nel cuore una fame, una « capacità di Dio ».

In una parola, è preghiera. Ha detto Madeleine Delbrél:

« In silenzio talvolta è tacere, sempre è ascoltare; ...non è evasione, ma un raccogliere noi stessi in Dio ».

Solo chi sa tacere così offre parole cariche di vita: parole che escono da un silenzio profondo, e domandano un altro silenzio per essere accolte.

 

GESTI E ATTITUDINI ESTERIORI

L'ufficio divino, come parte integrante della Liturgia, partecipa della sua sacramentalità : è cioè un segno sensibile che diventa tramite di salvezza: la produce e la offre. Il « segno » si costruisce attraverso un complesso di elementi, tutti radicati nell'uomo: c'è anzitutto l'assemblea, il radunarsi insieme di molti; c'è la parola e il canto con cui si esteriorizza la preghiera dei partecipanti.

Ma non è tutto: l'uomo si esprime anche nel gesto, e proietta il suo intimo nell'azione. Questo elemento è più rilevante nei sacramenti, ma non è assente dall'Ufficio, per il semplice fatto che non è contemplazione solitaria, bensì comune celebrazione. Del resto questo non ci è connaturale anche quando preghiamo da soli? Un sentimento di adorazione ci spinge a prostrarci, uno slancio d'amore ad innalzare le mani.

Soprattutto in ambito religioso talora il gesto giunge ad esprimere ciò che la parola è impotente a formulare. Questo si radica nell'unità profonda dell'essere umano: il soggetto di un atto così formidabile, qual'è la preghiera, non è solo l'anima, ma è tutto l'uomo: anche il corpo vi è coinvolto.

Chiamando il corpo a collaborare con lo spirito nella preghiera, l'Ufficio ci offre un mezzo efficace per unificare a livello della persona tutte le forze vive che ci sono in noi, raccogliendole intorno al Signore presente, perché cantino insieme la sua gloria.

È ovvio che in un atto comune le attitudini devono essere unificate. Ciò obbliga a una disciplina che può sembrare a danno della spontaneità. Ma si tratta della legge fondamentale di ogni atto comunitario: per poter dire autenticamente « noi », bisogna trovarsi insieme ed agire insieme.

La comunione nei gesti esprime all'esterno la comunione dei cuori. Ciò che viene sottratto alla spontaneità dei singoli, va a favore della unanimità.

 

CONCLUSIONE

Il complesso di questi elementi messi in opera con intelligenza, impegno e soprattutto con autentico spirito di preghiera, crea un ritmo originale.

Il tempo che da esso è scandito, è più una « qualità » che una « durata »: non c'è posto allora per la fretta, ma solo per quella « vigilanza orante » che risulta dalla calma e dall'alacrità coniugate insieme. È « preghiera che si esteriorizza per mezzo del nostro corpo, del nostro canto, della nostra vita, e diventa il centro focale della nostra vita fraterna » (H. LHEUREUX, L'Office est une célébrations, in « La Maison-Dieu » 95 [1968], p. 117).

 

 

[tratto da: LA LITURGIA - M. Magrassi - 1979 Marietti Editori]

 

 

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